Ocula 4, dicembre 2003

Il linguaggio della cucina

 

di Chiara Vigo



Si propone l'ipotesi di considerare la cucina come uno dei linguaggi dell'arte. Lo 'scopo' è stabilire se collocarla tra le arti allografiche o tra quelle autografiche, nella distinzione di Nelson Goodman, attraverso un percorso che dalla cucina tradizionale passando per la cucina futurista approda alla nouvelle cuisine.
Se la cucina tradizionale può essere considerata allografica in quanto la ricetta è una 'guida operativa' per produrre l'opera, come uno spartito in musica o un progetto in architettura, la nouvelle cuisine invece può essere considerata autografica nella misura in cui l'autore lascia impressa sull'opera una marca di originalità e autenticità.
Tale trasformazione nel panorama culinario viene analizzata grazie ad un passaggio intermedio in cui l'arte ha utilizzato la cucina come linguaggio e il cibo come materia da manipolare a fini estetici. La cucina elaborata dai futuristi pare infatti aver anticipato il cambiamento del gusto e delle pratiche culinarie nonché lo statuto autografico di certe tendenze che si sono affermate nella seconda metà del Novecento.




Il cibo come "sistema di significazione"[1] è stato analizzato e utilizzato in molti ambiti. La questione che vorrei qui affrontare è se il cibo o meglio la cucina, con la sua strutturazione in ricette e pietanze eseguite, possa essere considerata uno dei linguaggi dell’arte. Seguendo la distinzione dei linguaggi dell’arte elaborata da Nelson Goodman tra arti autografiche e arti allografiche[2], la cucina dovrebbe ricadere nelle arti allografiche, in quanto la differenza tra pietanza realizzata dal suo autore o da un mero esecutore non risulta significativa, l’opera rimane tale. Mentre per le arti autografiche, come la pittura, un’opera che non sia eseguita dall’autore originale è un falso.

La ricetta di cucina, come lo spartito in musica, è dunque uno "strumento in vista di esecuzione" che può essere usato, secondo Goodman, come "guida operativa" per produrre l’opera. Greimas sostiene che "la ricetta di cucina può essere considerata come una sottoclasse di discorsi i quali, esattamente come partiture musicali o piani architettonici, si presentano come manifestazioni di competenza attualizzata, prima che venga realizzata"[3]. Si tratta quindi di una procedura di programmazione per la costruzione di un oggetto di valore. Il valore consiste, nel caso della cucina e in quello delle altre arti, nell’ottenimento di un piacere estetico di ordine sensoriale.

Per Mary Douglas[4], il cibo è una forma d’arte che appartiene alle arti applicate, come l’abbigliamento, l’architettura e il design, perché adempie da un lato a esigenze funzionali (nel caso del cibo, la funzione biologica della nutrizione) e dall’altro ad esigenze estetiche.

Se assumiamo dunque che sia possibile parlare di cucina come di uno dei linguaggi dell’arte, il mio intento è di analizzare l’opera di artisti che l’hanno utilizzata come linguaggio manipolando la materia-cibo a fini estetici. Esemplare sembra il caso dei futuristi che hanno applicato alla cucina le forme e i principi della loro poetica, riuscendo tra l’altro ad anticipare il cambiamento del gusto e delle abitudini culinarie nell’arco del Novecento.

Con il "Manifesto della cucina futurista" firmato da Marinetti e apparso nel 1930 e con il libro La cucina futurista di Marinetti e Fillìa pubblicato nel 1932 nonché con molti banchetti precedenti e successivi, i futuristi propongono di sovvertire radicalmente ogni usanza in nome dell’originalità creativa attraverso pranzi-spettacolo, esperienze multisensoriali totalizzanti.

Innanzitutto, il rinnovamento del sistema alimentare italiano deve prendere l’avvio dall’abolizione della pastasciutta, definita dallo stesso Marinetti "vivanda passatista perché appesantisce, abbrutisce, illude sulla sua capacità nutritiva, rende scettici, lenti, pessimisti". Insieme alla pastasciutta è necessario anche abolire il volume e il peso come modi di concepire e valutare il nutrimento.

Inoltre, come le "tavole parolibere" futuriste scardinano sintassi e composizione tipografica, così la cucina futurista infrange ogni tipo di interdizione organolettica proclamando "l’abolizione delle tradizionali miscele per l’esperimento di tutte le nuove miscele apparentemente assurde", per esempio "la creazione di bocconi simultanei e cangianti che contengono dieci, venti sapori da gustare in pochi attimi".

Il perfetto pranzo futurista deve sollecitare tutti e cinque i sensi con "l’invenzione di complessi plastici saporiti, la cui armonia originale di forma e colore nutra gli occhi ed ecciti la fantasia prima di tentare le labbra". Il banchetto futurista è polisensoriale: prevede l’uso di espedienti per sperimentare la ricettività tattile dei commensali (come nell’Aerovivanda di Fillìa in cui si serve insieme alla pietanza un rettangolo di tre diversi tessuti da sfiorare mentre si mangia), prevede l’uso di profumi spruzzati in aria o sui commensali, di musiche da proporre negli intervalli tra le portate, di poesie, danze e rumori di contorno che stimolino una percezione simultanea non limitata al gusto.

Nonostante l’esuberanza delle sue proposte spesso inattuabili in contesti quotidiani, la cucina futurista ha precorso i tempi nel cambiamento del gusto per molti aspetti. In primo luogo, l’attenzione e la ricerca verso l’assoluta originalità delle vivande, ben descritta dai loro nomi fantasiosi, trova nella cucina futurista un posto di rilievo con accostamenti imprevedibili, l’utilizzo di ingredienti esotici e rari (carne di cammello, petali di rose, alchechingio), l’uso di carne e pesce crudi, il recupero dell’abbinamento dolce-piccante (pasta di mandorle e peperoncini) e dolce-salato (datteri e acciughe, pesce con banane e ananas, miele e carne come nel famoso Carneplastico di Fillìa). Altrettanto importante nella cucina futurista è naturalmente l’attenzione all’aspetto visivo, pittorico e scultoreo sia delle portate che della composizione della tavola: ogni vivanda-scultura deve avere un’architettura originale, possibilmente diversa per ogni commensale, che gli dia la sensazione di mangiare un’opera d’arte.

Molti elementi del rinnovamento gastronomico futurista, sia da un punto di vista estetico che del trattamento della materia, vennero recepiti tra gli anni Sessanta e Settanta dalla nouvelle cuisine, come ha sottolineato Claudia Salaris [5].

Nel 1972 due giornalisti gastromomi francesi, Henri Gault e Christian Millau, coniarono l’espressione nouvelle cuisine per definire lo stile culinario di un gruppo di chef di talento, tra i quali i fratelli Troisgros, Paul Bocuse, Michel Guérard, che dall’inizio degli anni Sessanta era entrato in conflitto con la tradizione della haute cuisine francese. Il momento più importante dell’elaborazione gastronomica non è più la perfetta applicazione di regole, ma la creatività, la capacità di accostare elementi inusuali, per ottenere nuove sensazioni e nuove armonie (tipiche le combinazioni di frutta con carne e pesce, gli aromi e gli accoppiamenti inediti, l’agrodolce e il dolcesalato).

Secondo i nuovi principi, la cucina deve rispettare la stagionalità e la freschezza dei prodotti, adeguarsi al mercato e ai nuovi ritmi di vita, riducendo al minimo le elaborazioni e le sovrastrutture, come condimenti e salse pesanti. In antitesi alla cucina classica, la nouvelle cuisine si afferma attraverso il rispetto della semplicità dei sapori, l’esaltazione del gusto e del colore originale degli ingredienti. Lo scarto si riflette sul trattamento della materia [6] e sulle tecniche di preparazione: all’operazione di miscelazione, come la intende Bastide, che trasforma l’oggetto semplice in composto, tipica di una tradizione culinaria che amalgamava i sapori facendoli convergere in un unico motivo conduttore, la nouvelle cuisine oppone l’operazione di selezione che valorizza l’identità sensoriale degli ingredienti per far giungere al palato gusti ben distinti. La riduzione della manipolazione della materia, metodologie di cottura più naturali, cotture brevi, cotture separate dei diversi ingredienti o addirittura crudità di pesce e di carne di derivazione giapponese mirano a rispettare l’identità naturale dei prodotti.

Inoltre, come la cucina futurista, anche la nouvelle cuisine riserva alla presentazione del cibo un’attenzione particolare nell’amore per il dettaglio, nella raffinatezza della composizione, del colore e della forma delle pietanze, le cui architetture vengono costruite come opere d’arte visiva. Si afferma l’uso di piatti individuali molto grandi, in sostituzione di quelli da portata, su cui vengono presentate combinazioni di piccole quantità di cibo in un’organizzazione compositiva che richiama l’estetica dello stile giapponese.

I piatti sono solitamente bianchi senza decorazioni, in modo tale che queste non interferiscano con la composizione cromatica della portata. Il piatto bianco diventa una tela su cui il cuoco può creare la sua opera, che risulta così incorniciata dalla falda più o meno larga del piatto.

La miniaturizzazione delle porzioni, la rarefazione del cibo sul piatto, l’esibizione degli spazi vuoti s’inseriscono nei modi di espressione di un minimalismo gastronomico, così come la minimal art negli stessi anni contrappone all’opulenza policromatica del contesto urbano e dei mass media soluzioni formali minime ed essenziali, riducendo l’opera a strutture semplici e colori primari.

Alla base delle analogie tra cucina futurista e nouvelle cuisine sta un diverso trattamento della materia rispetto alla tradizione del passato e un diverso ruolo della ricetta. Entrambe le scuole puntano alla valorizzazione degli ingredienti, crudi o poco elaborati, e sostengono un processo di naturalizzazione che si oppone alla trasformazione culturale del cibo attuata attraverso la cottura e la combinazione di vari elementi [7].

Dal punto di vista estetico questo spostamento verso la natura si sostanzia per la nouvelle cuisine nel recepire lo stile di presentazione minimale della cucina giapponese con il suo gioco di pieni e di vuoti, l’asimmetria, la spontaneità e il rispetto per gli elementi naturali. La stessa crudità della materia di derivazione giapponese acquista uno statuto estetico essenzialmente visivo [8].

"A differenza della cucina classica, che s’identificava in un corpus di ricette rigorosamente codificato, la nuova è per eccellenza una cucina "senza spartito", in cui l’adozione di un piatto prevede sempre una sorta d’arrangiamento personale. In alta ristorazione il gesto creativo del cuoco diventa esplicito: il proscenio conviviale si trasforma in uno spettacolo squisitamente individualistico, in cui si moltiplicano i solisti-compositori [la cucina come il jazz]. Tant’è che, mentre le cucine del passato contenevano in sé un progetto di riproducibilità, nella moderna "cucina d’autore" il fac-simile, quando sia riconosciuto come tale, viene vissuto alla stregua di un plagio. Più che stabilire un copione valido una volta per tutte, la nuova cucina impartisce dunque una lezione di metodo"[9].

L’analisi sin qui condotta costringe quindi ad invertire il punto di partenza: la cucina non è più un’arte allografica ma autografica. Per capire come questo slittamento dall’una all’altra categoria sia avvenuto è apparso indispensabile il paragone con i linguaggi artistici tradizionali perché proprio con il confronto e la contaminazione con queste particolari forme d’espressione è avvenuta una simile trasformazione.

Il nodo della questione è il ruolo e il valore del testo e dell’autore. Mentre nella cucina tradizionale il testo si configura come insieme impersonale di "istruzioni per l’uso" o, come diceva Greimas, "manifestazioni di competenza attualizzata", nella cucina futurista, come nella nouvelle cuisine e nelle più recenti contaminazioni dell’arte con la cucina, il testo non esiste più in quanto sistema strutturato di regole per l’esecuzione di un’opera, ma in quanto opera in costruzione, luogo dell’improvvisazione. L’autore di un simile testo emerge con grande evidenza, manifestandosi come esecutore. Il testo-ricetta è dunque mobile e cangiante all’interno di un quadro delimitato dal suo autore-esecutore.

Come l’improvvisazione musicale supera la natura di arte allografica della musica, così la pietanza d’autore, che sia futurista o nouvelle cuisine, acquista lo statuto di opera autografica in quanto diventa significativa la distinzione tra originale e falso. Le ricette futuriste non sono formulate quasi mai con l’imperativo, come accade normalmente nelle ricette di cucina (Greimas) ma in terza persona impersonale o con l’infinito, come se descrivessero più un’opera compiuta che un procedimento per ottenere la pietanza. La ricetta-pietanza diventa l’opera stessa dell’autore.

Attraverso la contaminazione con il mondo dell’arte (futurismo), la cucina muta lo statuto e il valore del testo (ricetta) e dell’autore (cuoco). Se nella cucina tradizionale il testo è impersonale, nella cucina futurista e nella nouvelle cuisine emerge con chiarezza la centralità del ruolo dell’autore che produce un testo verbale (la ricetta) e materiale (la pietanza) a cui imprime una marca di originalità che lo rende irripetibile e irriproducibile come un quadro. Il ritorno dell’aura [10].


Note

[1]Roland Barthes, Eléments de sémiologie, Paris, Editions du Seuil, 1964 (tr. it. Elementi di semiologia, Torino, Einaudi, 1966).

[2]Nelson Goodman, Languages of Art, The Bobbs-Merrill, 1968 (tr. it. I linguaggi dell’arte, Milano, Il Saggiatore, 1991).

[3]Algirdas Julien Geimas, Du sens II. Essais sémiotiques, Paris, Editions du Seuil, 1983 (tr. it. Del senso 2, Milano, Bompiani, 1984, p.154).

[4]Mary Douglas, Antropologia e simbolismo : religione, cibo e denaro nella vita sociale, Bologna, Il Mulino, 1985.

[5]Claudia Salaris, "Marinetti, padre della nouvelle cuisine", La Gola, 1985.

[6]Françoise Bastide, "Le traitement de la matière: opérations élémentaires", in actes sémiotiques — Documents, n.89 (tr. it. "Il trattamento della materia" in Semiotica in nuce, a cura di Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone, Roma, 2001).

[7]Claude Lévi-Strauss, Le cru et le cuit, 1964 (tr. it. Il crudo e il cotto, Milano, Il Saggiatore, 1966).

[8]Roland Barthes, L’empire des signes, Genève, Skira, 1970 (tr. it. L’impero dei segni, Torino, Einaudi, 1984).

[9]Gualtiero Marchesi e Luca Vercelloni, La tavola imbandita. Storia estetica della cucina, Roma-Bari, Laterza, 2001, p.154.

[10]Walter Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1955 (tr. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966).