Ocula zero, giugno 2001

"Puntate: fuoco!!"
Fiamme, lampi e fuochi nel cinema di guerra


 

di Federico Montanari



By night there is fear in the City,
Through the darkness a star soareth on;
There's a scream that screams up to zenith,
Then the poise of a meteor lone-
Ligthing far the pale fright of the faces,
And downward the coming is seen;
Then the rush, and the burst, and the havoc,
And wails and shrieks between.

[Di notte la città è in preda alla paura
nel buio si leva una stella
un grido lacerante fino allo zenith
poi plana una solitaria meteora
lampeggia da lontano la pallida paura dei volti
e la si vede abbassarsi, segando il buio.
Poi la corsa precipitosa, lo scoppio, e la strage
e il pianto, le grida di strazio.]


[Da: Herman Melville, The swamp angel, (L'angelo della palude), in Poesie di guerra e di mare, (1863), Mondadori, Milano, 1984].




0. Icone di guerra

Troppe volte, in questi anni, ci siamo trovati ad assistere con uno sguardo un po' attonito ed un po' perverso allo spettacolo delle 'guerre in diretta'. Il nostro occhio è dunque oramai abituato a questo mescolarsi del "grido lacerante", della "corsa precipitosa", dello scoppio nella città di notte e del planare di "una solitaria meteora", come recita Melville. La nostra iconologia da tg si è arricchita - è banale ricordarlo - dell'immagine fantasmagorica della 'notte di Baghdad'. Quell'immagine irreale, quasi in un ambiente liquido, essa stessa prodotto di tecnologie militari (apparecchi ad intensificazione di luce, pellicole all'infrarosso), si è rapidamente riprodotta in una vera e propria icona della guerra. E' stata successivamente citata visivamente nei reportage dalla ex Iugoslavia, è stata utilizzata e rivista infinite volte nei Blob così come nei servizi sui più diversi conflitti. Ebbene, si può pensare che il 'successo' di una tale immagine non consista tanto nella capacità evocativa o nella strana presentazione fantasmagorica di una guerra, quanto in 'micromotivi', in tratti 'invisibili' che sottostanno e informano tali caratteri che ci hanno così impressionato.

Crediamo allora che la potenza di un'immagine del genere, e di questi tratti che la costituirebbero, abbia a che fare con una intrinseca 'fotogenia' o 'telegenia' della guerra.

Seguendo gli studi di Virilio (1989; 1991) è possibile affermare come vi sia un legame profondo e radicale fra guerra e cinema; tuttavia il fatto importante e non ovvio è che tale legame non si esplica soltanto nello spettacolo della guerra. La fotogenia della guerra non si ridurrebbe alla sua 'bellezza' o 'spettacolarità', ma ad un suo carattere particolare che la legherebbe da sempre al cinema: un carattere avente a che fare con la percezione. Fin dalla sua invenzione la macchina da visione del cinema è intrinsecamente macchina da guerra, il suo sviluppo socio-tecnologico si accompagna allo sviluppo delle tecnologie belliche; ed il suo impiego successivamente sarà di tipo bellico. Propaganda, detection, intelligence: dall'uso strategico del cinema dichiarato da Hitler, Da Goering, da Speer, dalle prime riprese aeree della prima guerra mondiale, alle avanzatissime tecniche impiegate dagli aerei alleati durante la seconda guerra. Dunque, con l'avanzamento tecnologico, nello spettacolo e nella guerra si opera una nuova congiunzione: la 'guerre-lumière' è dichiarata. Essa ha luogo a partire da una svolta percettiva, ed a questo proposito Virilio parlerà dell'avvento di nuove strategie e di una nuova logistica; quella che, appunto, presiede alla visione e che ci condurrà alla guerra per il controllo dell'informazione in tempo reale e della stessa percezione dell'immagine-movimento e dell'immagine-tempo.

Le apparecchiature di tele-sorveglianza e le nuove armi tenderanno sempre di più a confondersi: la microtelecamera piazzata in cima ad una smart-bomb diverrà strumento di attacco ed al tempo stesso utopia realizzata (Abel Gance) del far cadere infinite macchine da presa sul campo di battaglia e di visione (Virilio, ibid.:140).

Tuttavia, se dal punto di vista di una storia, di un'antropologia e di una politica delle tecnologie (De Landa, 1991), tale fenomeno è di importanza fondamentale; se ciò, per tutta una serie di implicazioni, quali la possibilità della 'tele-perlustrazione' e della 'tele-visione', attraverso i display dei centri di controllo, comando, comunicazione e intelligence (C3I) - i cui sensori sono comunque sempre basati su tecnologie 'della luce' - tutto questo pare assumere una ben maggiore importanza a livello di 'usi sociali' e di media (vecchi e nuovi, si pensi ad Internet) piuttosto che in relazione al 'buon vecchio cinema'.

In altri termini e ancora una volta: in quale modo si approfondisce il legame del cinema con la guerra? In cosa consiste tale legame?

Ecco il problema della fiamma, e del fuoco che squarcia l'oscurità. E non si tratta certo di arrestarci alla banale metafora dello 'scontro a fuoco' o del 'fuoco nemico' o 'amico', sempre comunque rappresentati dal cinema.

1. Lampi-azione

L'esperienza della guerra moderna è consistita soprattutto nell'obbligare milioni di uomini a vivere in un campo percettivo allucinatorio, fatto di lampi che illuminano l'ambiente lo saturano di luce, lo 'sovra-espongono' rendendolo sur-reale; ed al contempo l'azione in guerra e l'azione di guerra è sempre azione punteggiata, episodica, fatta di lunghe e squallide attese, di infiniti istanti dilatati dal terrore monotono:

"Dove eravamo? C'era un terribile tanfo di merda (…) Allora ordinai daccapo agli uomini di far zaino a terra, dicendo loro di non prendersela e di ammirare come me, il paesaggio.

Il cannoneggiamento che veniva dal Nord aveva davvero la vastità, il brontolio continuo, il ritmo eterno e sempre rinnovato, l'ansito dell'oceano (…). La cresta che occupavamo doveva formare una specie di sperone giacché, a ferro di cavallo intorno a noi e a distanze più o meno ravvicinate e a intermittenza, si alzavano razzi luminosi il cui paracadute, aprendosi liberava una luce biancastra ed abbagliante, razzi che venivano a morire ai nostri piedi ricadendo lentamente una decina di metri più giù, permettendoci così di scorgere in un batter d'occhio, e come al lampo al magnesio, fitti reticolati di filo spinato (…) le cime di un bosco stranamente vicino e pettinato. Tutto ciò sapeva di melodramma e di prestidigitazione. Di prestidigitazione per la lestezza nel trucco e di melodramma per la musica d'accompagnamento. (…) Tutto ciò non aveva nulla di precipitoso, pareva molto ben regolato e non offriva nulla di particolarmente drammatico, ma era avvincente (…)." (Blaise Cendrars, da La mano mozza, in: AA.VV., 1993: 126)

2. Il cinema in campo

Il cinema, fin dalle sue origini entrerà nel campo di battaglia, si porrà dal punto di vista del combattente. Ed è così che ad esempio "la specificità della rappresentazione filmica della Grande Guerra si basa, in primo luogo, sulla sua capacità di restituire immagini in condizioni simili a quelle della percezione diretta (largo uso di piani sequenza e di panoramiche orizzontali che 'focalizzano' lo sguardo dello spettatore fondendolo, in un certo senso, con quello del soldato che osserva lo spazio dalla sua trincea)." (AA.VV., cit.: 50). Tuttavia, gli studiosi sottolineano che fin dall'inizio non è il registro 'realistico' a prevalere: per quanto si possa cercare di ricostruire uno 'sguardo da dietro al fucile', molto più spesso verrà colta l'impossibilità intrinseca di tale sguardo; si tratti di un Griffith costretto, nelle trincee della Somme, a ricostruire finte-vere azioni di guerra per l'impossibilità (logistica e percettiva) di riprendere i 'veri' combattimenti; si tratti del soldato obbligato a vivere in una situazione di deprivazione sensoriale, ed il cui unico campo percettivo possibile è fatto di un quadrato di cielo e dell'alternarsi di rombo assordante e di silenzio, nell'immobilità terrorizzata che la morte, rapida, possa arrivare (cfr. Leed, cit.).

Possiamo allora considerare quello che, forse, è un primo legame profondo fra guerra-percezione e cinema: la guerra è percezione-limite (quasi allucinazione) e azione-limite (quasi impossibilità dell'agire); il cinema, nel cominciare a sondare i limiti della rappresentazione dell'azione e della percezione, si ricongiunge alla guerra, in questo 'viaggio lungo i limiti'; 'viaggio ai bordi della notte della percezione'. E tutto questo grazie alla tecnologia ma, evidentemente, al di là della tecnologia stessa creando, il cinema, un proprio campo di azione-percezione, un proprio campo di battaglia, a partire dalla constatazione dei limiti della rappresentabilità dell'azione. Ed è appunto all'interno del genere 'film di guerra', quasi ai suoi limiti, che con Fuller si perviene a questa constatazione. Se l'azione è in se stessa un duello con gli altri, con un ambiente, con sé, con una situazione che la precede (Deleuze, 1983: 168) il portare all'estremo, il frammentare, lo scomporre tale azione e la sua rappresentazione filmica - grazie anche al film di guerra "con le attese interminabili e le impregnazioni di atmosfera da una parte, e dall'altra con le esplosioni brutali e gli acting-out che gli sono propri" (ibid.) significa rendere questa azione impossibile; ma anche non più rappresentabile.

Ecco, l'esplodere dell'azione in 'cristalli-azione', direbbe Deleuze, in lampi-azione, ci riporta con forza a questa metafora del fuoco-lampo della guerra: ancora una volta all'idea non di un 'simbolo' della guerra (o del film di guerra); ma del segno, di una traccia - che però è trasformatrice - del modo stesso di pensare all'azione, ed ai suoi blocchi, le sue deviazioni, e dell'impossibilità di essere rappresentata, di 'farsi riprendere'.

Superare i limiti dell'azione movimento, dice Deleuze, è giungere per il cinema (per il pensiero filmico) nei territori dell''immagine-tempo', alla ricerca dei diversi modi in cui si genera il tempo stesso e gli eventi, ed il loro divenire immagine.

Vorremmo, a tale proposito utilizzare due esempi forse tanto noti da essere banali, ma fondamentali per il nostro discorso: si tratta della sequenza finale di Full Metal Jacket (1987) e di alcuni tratti del 'viaggio' in Apocalypse Now (1979).

E' però necessaria una precisazione: appena sopra abbiamo parlato del 'genere' film di guerra, ed è evidente che tali film non possono essere considerati come film 'di genere'. Tuttavia è anche necessario sottolineare come vi siano perlomeno due modi di considerare l'idea di genere; da un lato in senso tradizionale e conservativo: 'la buona storia' che conferma e mantiene le regole che si sono via via stabilizzate. La seconda accezione è quella di un 'divenire genere': divenire che scardina i generi stessi, esso ha a che fare con il costituirsi di una dimensione che va al di là del singolo film, del singolo testo.

Già Barthes aveva individuato questa dimensione diffusiva ed "effusiva" della testualità, come una dimensione che attraversa i singoli e chiusi oggetti filmici, una dimensione di metodo e di sperimentazione: "anziché assegnare sensi pieni agli oggetti che scopre cerca piuttosto di sapere come il senso è possibile, a che prezzo e secondo quali procedimenti" (Barthes, in Termine, 1995: 112). "Il testo, prosegue Barthes (ibid.: 113), non dev'essere inteso come un oggetto computabile. Sarebbe vano tentare di dividere materialmente le opere dai testi…La differenza è la seguente: l'opera è un frammento di sostanza, occupa una porzione dello spazio dei libri (per esempio di una biblioteca). Il testo, per contro, è un campo metodologico… L'opera si tiene in mano, il testo si tiene nel linguaggio: il suo movimento costitutivo è l'attraversamento (può, in particolare, attraversare l'opera, più opere)". E' su questa linea, ci pare, che Ghezzi proprio riguardo a Kubrick, può parlare della sua 'Odissea' come di un "metatesto" (Ghezzi, 1995: 14-20), che attraversa ed informa le altra opere di Kubrick; quelle precedenti e quelle che seguiranno, potremmo dire, così come Jorge Luis Borges può parlare di "Kafka e dei suoi precursori" come degli scrittori che, dopo Kafka, potranno essere letti solo attraverso la sua opera: è Kafka stesso che crea i suoi precursori. E' 2001: Odissea nello spazio che crea lo spazio testuale che ci consentirà la sua visione anche nelle opere precedenti e seguenti.

3. L'azione erosa dal tempo: il film di guerra

Il testo, lo spazio testuale come zona di 'dispatching', vale a dire di scambio e traduzione fra diversi stili e discorsi. Possiamo applicare al genere, ed in particolare al genere 'film di guerra' una tale idea di testualità, sottolineandone tuttavia con forza l'accezione non normativa ma dinamica di cui dicevamo sopra? Possiamo pensare che il 'film di guerra', così come ne abbiamo accennato riguardo a Fuller, per ciò che concerne il punto estremo, di non ritorno, di 'film di azione' e della fine della nozione stessa di rappresentabilità dell'azione, possa introdurre dinamiche innovative? In Kubrick pare esserci tale spinta proprio nel lavoro sul 'film di guerra', e grazie ad esso; anzi grazie alla guerra, al pensiero sulla guerra.

Quando Kubrick afferma che guerra e cinema sono vicini, ciò non è solo vero in relazione alla questione tecnologica e del problema dei cambiamenti percettivi e sociali indotti dalla tecnologia (di guerra e di visione) (si veda sopra Virilio, cit.) - Kubrick a questo proposito dichiara di essere feticisticamente innamorato delle tecnologie, delle lenti, delle macchine fotografiche ma anche esperto di armi (Ciment, 1980: 42) -; non solo per questo interesse alle tecnologie, ma per il fatto che la costruzione di un film, con tutti i problemi logistici che comporta pare essere vicino alla preparazione di un'azione militare (in Ghezzi, cit.: 44).

Ancora una volta l'azione: da Fear and Desire (1953), ad Orizzonti di gloria (1958) fino al Dottor Stranamore (1963) e Barry Lyndon (1975), è l'azione di guerra che viene filmata dal di dentro (dal Kubrick che si lancia all'assalto fuori delle trincee in Paths of Glory, con la camera a mano, alle soggettive con immagine tremolante 'da reportage', nell'assalto alla base del Dr. Strangelove, al Barry Lyndon). Tuttavia se, lo ripetiamo, il limite della rappresentazione dell'azione è segnato, grazie al cinema di Kubrick si compie un destino prefigurato ancora una volta dalle analisi di Deleuze: la via di Kubrick, il suo stile rispetto ad altri possibili percorsi, sarà quella del passaggio al cinéma-pensée, al 'cinema-cervello' (Deleuze, 1985: 267-68). Esso non significa certo cinema 'astratto', non c'è meno pensiero nel corpo che choc e violenza in un cervello, afferma Deleuze; piuttosto, c'è il tentativo di costruire un mondo autonomo (il "mondo-cervello") nel quale sia possibile come 'filtrare' e rendere pure e visibili nella loro struttura le dinamiche, gli eventi del "mondo dei corpi".

Il penetrare nell'azione è per Kubrick non più solo condurrla agli estremi limiti: è distruggerla, è scomporla, si diceva in cristalli-azione, cristalli di senso: ora questi cristalli sono particelle che generano nuove strutture ritmiche, di percezione e di pensiero.

E l'azione di guerra ne è il paradigma, il modello - e non, come del resto sottolinea Ghezzi (ibid.), "la metafora romantica" del cinema o, peggio dell''autore' -, proprio per il suo praticare (e teorizzare) tempi e controtempi, attese, spasmi, riprese, accelerazioni: fino al giungere del cinema moderno alla presentazione di una dimensione 'pura' del tempo e del ritmo.

E' in questo senso che per Deleuze in cinema ed il pensiero sono alla ricerca di tali strutture dinamiche del tempo, (egli arriva a parlare di "kinostrutture" e di "cronogenesi"). Immagini-tempo.

4. "E durarono a lungo i notturni giuochi di Bengala: come in una festa"

E il fuoco? Il fuoco 'reale', che produce effetti? Intendiamo dire non l''immagine', ancora una volta, non la 'metafora bellica'. Il fuoco, fuoco di guerra, sarà una figura-prototipo di queste 'cronogenesi', di tali germi di ritmo e di tempo.

Ed ora cerchiamo di evidenziare - per larghi tratti - attraverso i due esempi sopra accennati tale potenza di figura della fiamma, sottolineando come due film così diversi per pensiero e concezione sembrano ritrovare alcuni punti in comune proprio, possiamo dire, per l''uso' del fuoco.

Per quanto riguarda Apocalypse Now, il fuoco punteggia i momenti salienti del film. Esso lo apre, nelle prime scene, quelle del dormiveglia del capitano Willard: fra le prime immagini abbiamo quella dell'incendio/esplosioni nella giungla anzi, sulla giungla, nel senso che quest'immagine - immagine eidetica e mentale che ricompare varie volte, nel momento conclusivo del famoso attacco al villaggio, e in tutta la sequenza finale, quando oramai scorrono i titoli di coda - è composta di una silhouette degli alberi, quasi per sovrapposizione con le fiamme che squarciano la densità del buio. Già, poiché uno dei tratti tipici di questo tipo di fuoco è veramente questo squarciare il buio denso, e del saturare la retina con lampi rapidi, ritmati, improvvisi ed in successione, alternati a momenti di spettacolo pirotecnico. Questi momenti hanno, fra l'altro, una vera e propria funzione nella struttura narrativa del film. L'iniziazione; l'aprirsi del viaggio; l'arrivo al luogo "da dove non si può più tornare indietro" (uno strano ponte, si ricorderà, con luminarie e fuochi di razzi); l'arrivo al villaggio di Kurtz in fondo al fiume; il finale.

Dunque, vi è come una 'punteggiatura' fatta di lampi, di esplosioni, sia nel corso della storia che all'interno di singole scene. Essa opera per saturazioni improvvise, e non intensificando gradualmente, e ciò avviene ad ogni livello: percettivo, saturando (con improvvisi guizzi) la percezione di un campo buio, di una dissolvenza 'in nero'; ma anche a livello di storia e di costruzione dei dispositivi dell'enunciazione. Infatti, nel film non si gioca tanto con meccanismi passionali, come l'attesa: si tratta, potremmo dire, di un fuoco 'freddo', cool, mentale, con un finale in cui, ad esempio e significativamente, sparisce pure la componente musicale, che per tutto il film era stata presenza fondamentale. E tutto ciò nel corso di un viaggio segnalato da questi fuochi presenti in acqua, in cielo, nella giungla, fino al 'cuore di tenebra' abitato dalla testa (illuminata da fiamme) di Brando-Kurtz.

E' stata sottolineata l'estrema complessità di questo film (cfr. ad esempio Zagarrio 1995: 80-85): complessità delle tecniche narrative ed enunciative, dei livelli, delle citazioni e riferimenti letterari, della costruzione delle immagini per sovrapposizioni e stratificazioni, fino a parlare (per il cinema di Coppola) di eccesso. E' chiaro che il nostro discorso, limitandosi ad una ricognizione su di una sorta di 'fenomenologia' del fuoco, rischia di semplificare troppo. Tuttavia vogliamo sottolineare tale ruolo del fuoco-lampo e fiamma come vero e proprio 'attore', che al tempo stesso ha funzione sintattica nel punteggiare e ritmare il film nel suo insieme.

Carattere simmetrico rispetto a questo pare invece avere il ruolo del fuoco in Full Metal Jacket. Se in Apocalypse Now esso era distribuito lungo tutto il film,punteggiandolo, si diceva, per costruirne il ritmo e la storia, nel film di Kubrick, al contrario, abbiamo tutta una allucinatoria prima parte di 'iniziazione' (si ricorderà che l'unica fiammata, fulminea, è quella dell'omicidio/suicidio del soldato Palla di lardo). Nessuna azione, solo preparazione, addestramento, sincronizzarsi di corpi e menti nella luce verdognola delle camerate e dei cessi della base. Il fuoco è tutto nella seconda parte del film ed è concentrato, delimitato, in uno spazio suo proprio.

Ecco che accade un cambiamento fulmineo: vi è una prima 'azione' di guerra (l'attacco dei guerriglieri alla base dei marines), tanto rapida da parere assurda e irreale.

Infine, il gruppo di uomini che 'entra' nell''azione'; sono di perlustrazione, perdendosi, in uno scenario fatto di macerie tanto desolato, vuoto, da sembrare finto; con allucinatoria ripetizione uno alla volta gli uomini escono allo scoperto e vengono uno ad uno colpiti; la luce, l'ambiente sono ancora algidi e freddi, le fiamme sono solo nello spazio che circonda i palazzi diroccati; brucia solo l'interno del magazzino in cui si nasconde il cecchino (è una ragazza); gli uomini entrano in questo fuoco; entrano nel fuoco, il fuoco si trova soltanto all'interno di questo spazio chiuso (lo spazio cerebrale di cui si parlava sopra? Lo spazio dell'Overlook hotel?).

Ecco, il fuoco di Kubrick delimita uno spazio - lo spazio chiuso - in cui l'unico straccio di azione possibile è quello dei topi impazziti in un labirinto; un labirinto in fiamme, senza scampo.

Il fuoco-lampo di Coppola, invece, serviva a segnalare un cammino, un viaggio nelle tenebre, circondato da ciò che restava dell'azione degli uomini (gli scheletri degli elicotteri e dei bombardieri sugli alberi, lungo il fiume). Due modi per urlare, o sussurrare, la stessa impossibilità del 'fare' e del suo senso.

Tuttavia, in Full Metal Jacket, poco prima di entrare nel magazzino in fiamme, sullo sfondo, con gli uomini in cerchio perché vi è un compagno morente, si intravede qualcosa: come un parallelepipedo nero, opaco; ma questa volta la sua cima è in fiamme…questa volta l'odissea finisce, si consuma prima ancora di cominciare. Ed i soldati vanno in marcia, sotto un cielo fiammeggiante, al canto di "Viva Topolin…"


Federico Montanari

 

Bibliografia

AA.VV., Il cinematografo al campo, Transeuropa/Cinema, Ancona, 1993

Barthes, Roland, I segni e gli affetti nel film, Vallecchi, Firenze, 1995 (ed. originale 1992 (1960-62)).

Cendrars, Blaise, La mano mozza, in: AA.VV., 1993

Ciment, Michel, Kubrick, Milano Libri Edizioni, Milano, 1981 (ed.or. 1980)

De Landa, Manuel, War in the Age of Intelligent Machines, Zone Books, New York, 1991

Deleuze, Gilles, Cinéma 1 - L'image-Mouvement, Minuit, Paris, 1983

Deleuze, G., Cinéma 2 - L'Image-Temps, Minuit, Paris, 1985

Fussell, Paul, La grande guerra e la memoria moderna, Il Mulino, Bologna, 1984, (ed. or. 1975)

Ghezzi, Enrico, Stanley Kubrick, Il Castoro Cinema, Roma, 1995

Leed, Eric, Terra di nessuno, Il Mulino, Bologna, 1987 (ed. or. 1979)

Melville, Herman, The swamp angel, (L'angelo della palude), in Poesie di guerra e di mare (1863), Mondadori, Milano, 1984

Termine Liborio, Un festival di affetti chiamato cinema, in: Barthes, 1995

Virilio, Paul, La machine de vision, Galilée, Paris, 1989

Virilio, Paul, Guerre et cinéma 1, Editions Cahiers du Cinéma, Paris, 1991

Zagarrio Vito, Francis Ford Coppola, Il Castoro Cinema, Roma, 1995.