Pratiche di gioco e significazione in atto.

di Agata Meneghelli

 

In questo lavoro ci proponiamo di dimostrare come un particolare tipo di testo (il videogioco) e una particolare pratica (il play, l’atto di giocare) possano diventare un’occasione per problematizzare alcuni concetti semiotici e per individuare possibili sviluppi epistemologici e proficue aperture interdisciplinari.  A quali condizioni il gioco ha senso? Dove sta il valore del gioco? Che tipo di piacere procura a chi vi partecipa? Il tentativo di rispondere a questi interrogativi ci ha portato a riconoscere la pregnanza semiotica della dimensione pragmatica e passionale della significazione in atto.

1. La vocazione empirica della semiotica.

La percezione del videogioco nella nostra società è ancora condizionata da un diffuso atteggiamento “apocalittico” che porta a un relativo disinteresse della ricerca accademica, e in particolare della ricerca semiotica, nei confronti di un nuovo medium considerato ancora come marginale e “povero” di contenuti. Questa diffidenza non è giustificabile se consideriamo la vocazione empirica della teoria semiotica che da sempre si alimenta dei risultati delle analisi di testi concreti e che, allo stesso tempo, costituisce il bagaglio di conoscenze che guida e indirizza l’analista, delimitandone il campo di pertinenza.

È proprio a partire da questo scambio dialettico tra teoria e prassi che è legittimo e proficuo approcciare semioticamente oggetti che oppongono resistenza alla teoria. Del resto è su queste basi che si sono sviluppate nuove “ramificazioni” della disciplina semiotica, in particolare la socio-semiotica e la giovane semiotica dei nuovi media: l’analisi di nuove forme testuali, di nuove pratiche ha dimostrato di avere positivi effetti di ritorno sulla teoria stessa portando se non a ridefinire i concetti semiotici, sicuramente a constatarne i limiti, imponendo alla teoria di riposizionarsi, riaggiustarsi se vuole continuare a perseguire il suo scopo principale che è quello di “portare alla luce le strutture significanti che danno forma al discorso sociale e al discorso individuale” (Coquet, 1984).

In questo lavoro ci proponiamo di dimostrare come un particolare tipo di testo (il videogioco) e una particolare pratica (il play, l’atto di giocare) [1] possano diventare un’occasione per problematizzare alcuni concetti semiotici e per individuare possibili sviluppi epistemologici e proficue aperture interdisciplinari.

2. Il gioco come atto di enunciazione: game e play.

Guardare al fenomeno videoludico con uno sguardo semiotico significa innanzitutto riconoscere la doppia natura del gioco: esso è contemporaneamente sistema e processo, è game e play[2]. Il game è il gioco in quanto sistema astratto, insieme di strutture paradigmatiche e di regole per la loro combinazione; il play è invece il gioco in quanto processo messo in atto da un soggetto (il giocatore) che usa quelle strutture astratte e le attualizza in strutture sintagmatiche che rispettino certe regole di costruzione.

Data la sua duplice natura, il gioco giocato dovrà quindi presupporre un soggetto che medi tra il sistema e il processo e questo soggetto è appunto il giocatore, che entra a far parte della macchina testuale, non come un soggetto che dall’esterno la fa funzionare, ma come un ingranaggio della macchina stessa. La rilevanza della soggettività di chi partecipa all’atto di gioco porta prepotentemente alla luce l’importanza dell’enunciazione per la comprensione del modo in cui il videogioco significa: nell’enunciazione ludica a un atto di produzione del game, ad opera dell’istanza creatrice del gioco, segue un’enunciazione secondaria messa in atto dal giocatore stesso che è chiamato ad operare delle scelte, ad esprimerle in qualche modo, divenendo allo stesso tempo co-enunciatore e co-enunciatario del play, testo che lui stesso contribuisce a costruire.

Le peculiarità della forma testuale ludica impongono di riflettere sulla dimensione soggettiva del senso e di ragionare su concetti-chiave per la teoria semiotica: in particolare i concetti di interpretazione, significazione e valorizzazione.

In questo intervento ci concentreremo sul play, sull’atto di gioco, interrogandoci sul suo statuto epistemologico (in che senso il play è un testo, cioè un oggetto interpretabile da qualcuno? A quali condizioni una partita è dotata di senso e qual è il significato di una partita?), sul valore del gioco (che valore ha un oggetto che si definisce ‘ludico’? Che particolarità ha la valorizzazione ludica e che legami intrattiene con la valorizzazione estetica?) e sul piacere che esso procura al giocatore (dove sta il piacere del gioco? Che tipo di cambiamenti determina nella competenza di chi lo pratica?).

3. Sullo statuto del play: interpretazione, significazione e performance.

Innanzitutto è necessario riflettere sullo statuto epistemologico del play (cioè la partita, il gioco giocato) e di conseguenza sulla pertinenza di una semiotica dei processi: la partita è un processo, è la messa in atto di un sistema di regole e convenzioni. Ma può essere considerata un testo?

Abbracciando una concezione estremamente allargata, intendiamo il testo come un qualsiasi oggetto “potenzialmente interpretabile da qualcuno” o “semplicemente significativo per qualcuno”. (Pozzato, 2001, p.97). Affinché ci sia testo ci deve quindi essere un Soggetto che attribuisce valore a un Oggetto, e questo processo di valorizzazione è indissolubilmente legato alla costruzione del significato del testo. Infatti, l’attribuzione di valore a un Oggetto presuppone sempre un processo di interpretazione, ma allo stesso tempo non c’è interpretazione senza che il Soggetto abbia riconosciuto nell’Oggetto un qualche valore, senza che si sia instaurata una relazione.

A partire dalla svolta enunciativa dello strutturalismo - che ha altresì portato a individuare possibili punti di convergenza tra la tradizione greimasiana e la tradizione interpretativa – la teoria semiotica nel suo complesso ha conosciuto un progressivo ‘spostamento’ dall’enunciato all’enunciazione, attribuendo un’importanza sempre maggiore al processo di interpretazione, fino a riconoscerlo come un vero e proprio atto di produzione di senso. Portando alle estreme conseguenze le intuizioni della semiotica interpretativa, Geninasca (1997) arriva ad affermare che, prima dell’appropriazione da parte di un lettore, non è neanche possibile parlare di testo ma semplicemente di oggetto testuale.

“Leggere, interpretare un enunciato, costruirne la coerenza, significa attualizzare il testo – di cui l’oggetto testuale non è che la promessa – per coglierlo come una globalità di significato” (cit., trad.it. p.105).

Da questa prospettiva è infatti il lettore, l’interprete a riconoscere, individuare e istituire l’insieme delle relazioni differenziali dalle quali scaturisce la significazione[3].

Tornando alla particolarità dell’oggetto che stiamo interrogando, cioè la partita a un videogioco, dobbiamo verificare se e a quali condizioni esista un’interpretazione e ci sia quindi significazione. Come sottolineato da Geninasca, “la questione del senso o della mancanza di senso non si pone evidentemente allo stesso modo per discorsi di diverso tipo” (ivi, p.79).

Ipotizziamo un soggetto che tenti di interpretare e di dare senso a una partita videogiocata da un altro, la sua attenzione nei confronti della partita svanirà presto, la partita sarà per lui priva di valore. Sarà difficile che questo lettore-non giocatore riesca a dare un senso a un insieme caotico di immagini e suoni, che riesca a individuarvi un sistema di relazioni coerenti e capaci di significare qualcosa, per lui. La partita non sarà quindi per lui un testo dotato di senso, perché l’insieme di impulsi visivi provenienti dallo schermo e di impulsi sonori provenienti dalle casse del PC, non possiederanno i tratti di coerenza, coesione e intelligibilità che fanno di un oggetto un testo.

Ma allora siamo obbligati a considerare la partita come un processo privo di significato? Mi sembra un’operazione eccessivamente drastica: se ci poniamo ora nei panni di un lettore-giocatore non possiamo affermare che la partita non abbia significato. Essa in questo caso acquista coerenza e intelligibilità e possiede un indubbio valore, non si giustificherebbe altrimenti la diffusione delle pratiche di gioco e la presenza di numerose comunità virtuali raccolte attorno a giochi di successo.

La significazione di una partita, la sua possibilità di avere significato, si pone quindi tutta nel rapporto che si viene a creare tra il giocatore e il gioco (play). Questo ovviamente non significa che il gioco non intrattenga rapporti con il contesto socio-culturale più ampio, anzi il gioco fa parte della cultura, è cultura testualizzata; ma è comunque alla relazione tra giocatore e gioco che dobbiamo guardare per comprendere il valore inscritto in una partita, il suo significato per un Soggetto che la vive in prima persona.

Come ogni interprete, il giocatore che prende parte a una partita, contribuisce all’attuazione del passaggio dal sistema al processo, cioè assume il ruolo di un ri-enunciatore. Ma nella particolare relazione che si viene a creare tra giocatore e play si pone un elemento di divaricazione rispetto ad altre forme di testualità, cioè il play magnifica una proprietà del concetto di interpretazione che in altri casi rimane narcotizzata: la dimensione produttiva e performativa del fare interpretativo.

In questo la pratica ludica, il play, si avvicina alle pratiche di re-interpretazione analizzate da Spaziante (2000), e più in generale a quelle pratiche artistiche in cui la lettura piena dell’opera d’arte presuppone una sua esecuzione; in questi casi l’atto di interpretazione non si limita a una dimensione cognitiva, ma si fa a sua volta prassi enunciativa, pratica trasformativa che, manipolando il piano dell’espressione di un testo, lo mette in agitazione portando alla produzione di un altro testo.

In altre parole, se qualsiasi testo per avere senso deve essere interpretato da qualcuno, nel caso del gioco il concetto di interpretazione è obbligato a comprendere anche l’idea di un fare trasformativo, manipolatorio, configurativo:  il giocatore si fa soggetto enunciante, che contribuisce alla creazione di un altro testo (il play). Quest’ultimo a sua volta  assume un significato solo per il soggetto che mette in atto la performance o per un altro soggetto che partecipa attivamente, attraverso una lettura pratica, alla stessa performance di gioco.

Queste osservazioni ci permettono di individuare nella performance l’elemento discriminante che delimita il sensato dall’insensato, e ci permettono di affermare che il play in quanto processo è significativo solo nell’ottica di chi lo vive, di chi lo sperimenta, di chi lo esperisce in prima persona, con la propria soggettività.

Il fatto che il play non abbia significato se non a partire da un soggetto che lo agisca rende necessaria una problematizzazione del concetto stesso di significazione. Già la teoria ‘standard’ riconosceva due accezioni del termine: “la significazione può essere parafrasata sia come «produzione del senso» sia come «senso prodotto»” (Greimas, Courtes 1979, voce Signification), ma è solamente con la nuova semiotica del discorso che la teoria tenta di cogliere la significazione in atto, tenendo conto delle varie fasi processuali della sua costituzione. Un’analisi semiotica di testi peculiari quali i giochi può essere un buon banco di prova per surrogare questi recenti sviluppi epistemologici della teoria, portando alla luce in particolare la multidimensionalità della significazione in atto: l’interpretazione e più in generale la significazione di un gioco implica una dimensione pragmatica e passionale, oltre che cognitiva.

4. Valorizzazione ludica: il piacere del testo.

Le pratiche ludiche permettono al giocatore di uscire temporaneamente dalle regole comportamentali che caratterizzano una realtà sociale, di sospendere il frame della ‘vita ordinaria’ per entrare in un altro mondo, con regole proprie, valori propri, una propria enciclopedia di riferimento. La ri-semantizzazione che l’attività ludica opera sulle pratiche e sui testi circolanti nel contesto socio-culturale più ampio impone di riflettere sul concetto stesso di ludico. In ambito semiotico molti hanno sottolineato il legame tra l’estetico e il ludico[4]: in base a che cosa definiamo un testo ludico? E che legami intrattiene con un testo estetico?

Per rispondere a questi interrogativi è necessario affrontare il problema della valorizzazione e quindi della relazione tra Soggetto della significazione (nel nostro caso il giocatore) e Oggetto della significazione (il play). Questa relazione è dialettica e bidirezionale: da un lato il Soggetto nell’atto di interpretazione dà senso all’Oggetto, lo trasforma in un discorso dotato di senso articolato; dall’altro lato il Soggetto può essere a sua volta trasformato dal testo che lui stesso ha istituito, l’atto di lettura può portarlo a un cambiamento della propria competenza modale, passionale o epistemica.

Sicuramente sia nel caso di testi estetici, sia nel caso di testi ludici, l’efficacia del testo, il suo valore per l’interprete sta nel piacere stesso della pratica di lettura o di gioco, nella trasformazione della competenza passionale dell’interprete.  Abbiamo visto, in particolare, come il significato del play stia nel valore vissuto di quel testo, nell’esperienza presa in carico da una soggettività; per la definizione stessa di “ludico” il gioco deve portare a una trasformazione euforica del giocatore, deve provocargli un qualche tipo di piacere. Ma questo piacere dipende a sua volta dal modo in cui il soggetto esperisce il testo, dal modo in cui lo interpreta e gli dà senso, cioè dal tipo di razionalità[5] che il soggetto assume nell’atto di interpretazione e dal tipo di razionalità che l’oggetto richiede per avere senso.

I testi estetici e i testi ludici non possono essere ricondotti a un’unità intelligibile se non adottando una razionalità mitica[6], che nega la logica tipica del pensiero inferenziale basato su relazioni di causa-effetto, di dipendenza unilaterale tra fenomeni. Negando il principio di non contraddizione e le regole del pensiero positivista, la razionalità mitica permette di conciliare termini opposti, di valorizzare i fenomeni in base a criteri quali il ritmo, la simmetria, il dialogismo, la dimensione estesica e passionale potenzialmente presente in ogni fenomeno esperibile.

A questo livello il testo ludico e il testo estetico condividono la proprietà di avere senso solo a patto del superamento di una prensione molare, cioè di un tipo di interpretazione che si appunta sul sapere enciclopedico, sul senso comune. Nell’instaurazione estetica e ludica degli oggetti testuali diventa infatti particolarmente saliente quella che Geninasca definisce prensione impressiva, che instaura tra soggetto e testo un rapporto pre-logico, potremmo dire ‘onirico’ e che coinvolge il soggetto in un’esperienza sinestesica, passionale, vissuta attraverso il corpo proprio[7].

È questo rapporto pre-logico, fusionale tra soggetto della significazione e oggetto della significazione che dà valore a testi estetici e ludici. Ciò non toglie che tali testi possano acquisire anche una valenza etica, di interrogazione circa il valore dei valori. Significativa è a questo proposito la riflessione fatta da un noto videogiocatore:

The Sims mi consente di mettere in pausa per qualche ora la monotonia dei giorni che passano e di vivere in forma tecnoludicamente mediata la monotonia dell’esistenza/non esistenza di personaggi digitali. (…) E tuttavia, mentre gioco a The Sims, mi interrogo sulla reale consistenza ontologica della mia esistenza.”[8]

Come già intuito da Greimas in Dell’imperfezione, la dimensione estesica (cioè percettiva) dell’esperienza estetica può portare a una rielaborazione successiva: questo elemento avvicina le esperienze mistiche, estetiche e passionali le quali, “provate principalmente nel corpo e in uno stato in cui l’io avverte un mancato possesso di sé, sono suscettibili di una ‘ripresa’ oggettivante successiva” (Pozzato, 2001, p.166).

5. Dialogismo e scissione del sé.

Se il valore di un testo ludico sta nell’esperienza vissuta è necessario comprendere che cosa spinge un soggetto a lasciarsi coinvolgere in un’esperienza fusionale e immersiva: perché essa è desiderabile? Dove sta il piacere del gioco?

Il piacere del gioco e in generale delle pratiche ludiche sta proprio nella trasgressione delle regole del senso comune, della logica dominante in un certo contesto socio-culturale. Giocando, il giocatore sospende momentaneamente la sua schiavitù dentro la realtà, evade, fugge, si sottrae al mondo in cui vive per rifugiarsi in un altro mondo, un mondo che può scegliere e in cui può scegliere di vivere.

In questo senso la pratica del gioco, come quella del carnevale, del travestimento, e in generale delle pratiche di evasione, realizza il dialogismo[9] che solo permette la rimessa in discussione delle regole imposte all’individuo dal fatto stesso di far parte di una società. Nel gioco, come nel carnevale, due modi diversi di dare senso al mondo, si congiungono, si contraddicono e si relativizzano (Kristeva, 1969).

Come sottolinea lo stesso Bachtin, in un certo senso del termine, il dialogismo è il rapporto complesso che si instaura tra diversi sistemi semiotici, tale per cui si crea una trasformazione dialettica tra spazi semiotici confinanti e si rende viva e dinamica la cultura[10]. Così le pratiche di gioco, poste per definizione nelle zone periferiche di uno spazio semiotico, mettendo in relazione tra loro diversi sistemi di valori, diversi testi e pezzi di testi, li dinamizzano, li relativizzano e producono nuova informazione. Huizinga (1939) è arrivato ad affermare, forse eccessivamente, che il gioco precede la cultura; forse è meglio affermare che il gioco è uno degli spazi semiotici privilegiati in cui la cultura si rinnova, si ricrea e si relativizza[11].

Tornando all’importanza della trasgressione, vorremmo sottolineare come a differenza di testi estetici particolarmente innovativi, la trasgressione nel caso delle pratiche ludiche non è semplicemente percepita e interpretata dal giocatore, ma è vissuta, partecipata: è il giocatore che in prima persona trasgredisce alle regole del mondo in cui vive per entrare in un altro mondo con un’altra legge.

Si potrebbe obiettare che in molti giochi l’altro mondo in cui il giocatore è chiamato a vivere non è tanto distante da quello in cui vive nella sua quotidianità: esemplare è il caso di The Sims - definito come “simulatore di vita reale” - in cui l’avatar del giocatore svolge micro-programmi narrativi estremamente banali in quanto appartenenti alla routine quotidiana (mangiare, bere, lavarsi, andare a lavorare, guardare la tv…). Dove sta in questo caso la trasgressione? A nostro avviso sta nella negazione della soggettività del giocatore, che è a un tempo attore e spettatore, soggetto dell’enunciato e soggetto dell’enunciazione. Come chi partecipa al carnevale, il giocatore

 “perde la sua coscienza individuale per passare attraverso lo zero dell’attività carnevalesca e sdoppiarsi in soggetto dello spettacolo e oggetto del gioco.(…) il soggetto è annientato: vi si realizza appieno la struttura dell’autore come anonimato che crea e si vede creare, io e altro, uomo e maschera.” (Kristeva, 1969, trad.it. p.132)

Nel caso delle pratiche ludiche, infatti, la trasgressione implica la messa in atto di una pratica di scrittura-lettura (il game-play), una pratica che opera una trasformazione di strutture significanti. Ciò che viene trasformato è in ultima istanza la soggettività del giocatore: l’io del giocatore diviene un non-io per installarsi poi nel mondo del gioco come un Altro, un ‘doppio’.

È quindi in questo processo di scissione del giocatore in soggetto dell’enunciazione e soggetto dell’enunciato che sta il piacere del testo, in quell’istante prolungato in cui il giocatore perde la propria presenza al mondo circostante e la propria presenza a sé per entrare in un altro mondo “in cui poter riposare dal peso dell’esistenza (…) in cui sentirsi aereo, etereo, leggero, invulnerabile, irresponsabile, in-esistente” (Pecchinenda, 2003, p.81).

Il giocatore, immergendosi nel mondo del gioco, vive in prima persona un’esperienza estesicamente e passionalmente valorizzata: è lo sdoppiamento in un altro io che rende il play così coinvolgente per chi lo vive in prima persona, è l’incarnazione in un alter ego che permette al giocatore di azzerare la sua identità e di riaffermarla come identità altra. Il giocatore vive in un altro mondo sperimentando sé come un altro, in una costante tensione tra più soggettività che si uniscono in una soggettività sincretica complessa (io-tu-egli).

Già Caillois (1967) riconosceva l’ilinx (la vertigine) come elemento caratteristico di tutti quei giochi che

“si basano sulla ricerca della vertigine e consistono in un tentativo di distruggere per un attimo la stabilità della percezione e a far subire alla coscienza, lucida, una sorta di voluttuoso panico. (…) si tratta di accedere a una specie di spasmo, di trance o smarrimento che annulla la realtà con vertiginosa precipitazione” (cit.,trad.it., p.40).

Ma a differenza delle attività portate come esempio da Caillois (altalena, acrobazia, giostra), nei videogiochi la perdita del sé è immediatamente seguita dall’acquisizione di un altro sé; all’annullamento dell’identità segue una traslazione del sé, che permette l’accesso a un altro mondo.

Il valore e il piacere del gioco stanno quindi nella sua interattività, nel suo dialogismo. Ricordiamo che il concetto di dialogismo bachtiniano oltre all’idea di intertestualità comprende infatti anche l’idea di un soggetto ambivalente, doppio: di un soggetto che sperimenta l’anonimato, il non essere. Il giocatore si trova a passare per lo zero della scrittura, per cui egli assume il ruolo attanziale di non-soggetto[12], puro attante della predicazione, priva di qualsiasi assunzione del suo atto. Ma trasformandosi in Altro, nel proprio avatar, il giocatore si incarna in un soggetto personale, si enuncia e enunciandosi si afferma come soggetto (è l’io che dice io e che si dice io). I rapporti dialogici si distinguono dai rapporti logici e oggettuali proprio perché debbono incarnarsi “cioè entrare in un’altra sfera dell’essere: diventare parola, cioè enunciazione, e avere un autore, cioè un creatore dell’enunciazione, la cui posizione essa esprime”. (Bacthin, 1963, trad.it. pp.237-38).

Il giocatore si trova così a muoversi incessantemente all’interno di una tensione tra un non-soggetto e un soggetto débrayato. Il piacere del testo ludico sta proprio nella perdita del sé e nella riaffermazione del sé: nel non essere nessuno fuori dal mondo del gioco e nell’essere qualcuno nel mondo del gioco, (addirittura nell’essere un dio nel caso specifico dei god games[13]).

Riprendendo la distinzione operata da Barthes tra testo di piacere e testo di godimento, potremmo affermare che il gioco per essere efficace deve essere in qualche grado un testo di godimento che opera una “vertiginosa scissione del soggetto, descritto come una pura alternanza, quella dello zero e della sua cancellatura” (Barthes, 1973, corsivo mio).

È per questo che il piacere del testo ludico è indicibile, incomprensibile, se non esperito in prima persona. È dentro e durante questa esperienza che il giocatore vive come soggetto di una finzione:

“Viene ricavata una forma di piacere da un modo di immaginarsi come individuo, d’inventare un’ultima finzione, delle più rare: il fittizio dell’identità” (ivi, corsivo mio).

6. Significanza e aperture epistemologiche.

Se il gioco non ha senso se non in quanto discorso in atto, in quanto significazione come processo in fieri, la semiotica o sceglie di non interessarsene o decide di tenere conto degli aspetti fenomenologici, passionali e perché no psicologici (anche se questo termine ha sempre fatto troppo paura alla semiotica!) della significazione.

Il riconoscimento della dimensione pragmatica e passionale, oltre che cognitiva, di ogni fenomeno significativo, va di pari passo con una revisione del concetto stesso di significazione: i testi da noi presi come oggetto di analisi richiedono di vedere la significazione in quanto significanza[14], cioè non tanto come ‘senso articolato’ quanto come ‘processo di articolazione del senso’, come produzione in fieri del senso, come significazione in atto.

“La significanza è un processo, nel corso del quale il «soggetto» del testo, sfuggendo alla logica dell’ego-cogito e impegnandosi in altre logiche (quella del significante e quella della contraddizione) si dibatte con il senso e si decostruisce («si perde»). (…) essa pone il soggetto (dello scrittore, del lettore) nel testo, non come una proiezione, anche fantasmatica (…), ma come una «perdita» (…), donde la sua identificazione con il godimento, attraverso il concetto di significanza il testo diventa erotico.” (Barthes 1998, p.234)

In sintonia con i più recenti risultati della nuova semiotica del discorso – Fontanille e Coquet in primis - il rinnovato interesse per la significazione in atto porta a un triplice allargamento dei confini imposti al campo di pertinenza della teoria semiotica.

Da un lato una semiotica del processo è destinata a diventare una socio-semiotica: se il valore del gioco è inscritto nella performance, è la pratica stessa di gioco che possiede un significato per chi vi partecipa, e questo significato ha a che fare con la soggettività dei partecipanti, con le relazioni intersoggettive che mettono in campo, in ultima analisi con la propria presenza al mondo. Il progetto socio-semiotico si propone proprio di comprendere “lo statuto della nostra presenza al mondo come mondo reso significante grazie al gioco delle pratiche intersoggettive” (Landowski, 1999).

Dall’altro lato, una semiotica del processo, della parole, non può esistere se non interrogandosi circa questioni che riguardano gli aspetti fenomenologici, propriocettivi, della significazione incarnata, del senso vissuto a partire dal corpo proprio. Se la semiotica decide di cercare il senso non più unicamente nei testi tradizionalmente intesi ma anche nei territori più vasti dell’esperienza vissuta deve necessariamente ricreare dei ponti con altre discipline, prime fra tutte l’antropologia e la fenomenologia.

Inoltre gli aspetti passionali dell’esperienza videoludica impongono di guardare sotto una nuova luce le proposte di una semanalisi (Kristeva, 1969), di una semiotica che tenga conto dei risultati della psicanalisi e delle scienze cognitive per cercare di comprendere come “il soggetto si sposti, si allontani e si perda quando enuncia” (Barthes 1998, p.235).

 

Riferimenti bibliografici:

Bacthin, M.

1963, Problemy poetici Dostoevskogo, Moskva, (trad it. Dostoevskij, poetica e stilistica, Einaudi, Torino 1968).

 

Barthes, R.
1973, Le plaisir du texte, Editions du Seuil, Paris (trad.it. Il piacere del testo, Einaudi, Torino 1999).

1998, Scritti, Einaudi, Torino.

Caillois, R.

1967 Les jeux et les hommes, le masque et le vertige, Gallimard, Paris (trad.it. I giochi e gli uomini, la maschera e la vertigine, Bompiani, Milano 1981).

 

Coquet, J.C.

1984, Le discours et son sujet, Klincksieck, Paris.

 

Eco, U.

1973, Homo ludens oggi, introduzione a Huizinga 1973.

 

Fontanille, J.

2004, Figure del corpo. Per una semiotica dell’impronta, Meltemi, Roma.

 

Geninasca, J.

1997, La parole littéraire, PUF, Paris (trad.it. La parola letteraria, Bompiani, Milano 2000).

 

Greimas, A.G.

1987,  De l’imperfection, Fanlac, Périgueux (trad.it. Dell’imperfezione, Sellerio, Palermo 1998).

 

Greimas, A.G., Courtés, J. (a cura di)

1979, Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Hachette, Paris (trad.it. Semiotica. dizionario ragionato della filosofia del linguaggio, Casa Usher, Milano 1983).

 

Huizinga, J.

1939, Homo ludens, Amsterdam (trad.it. Homo ludens, Einaudi, Torino 1973).

 

Kristeva, J.

1969, Semeiotike. Recherches pour une sémanalyse, Editions du Seuil, Patis (trad.it. Semeiotike. Ricerche per una semanalisi, Feltrinelli, Milano 1978).

 

Landowski, E.

1999, Il tempo intersoggettivo: in difesa del ritardo, in P.Basso, L.Corrain (a cura di), Eloquio del senso. Dialoghi semiotici per Paolo Fabbri, Costa & Nolan, Ancona-Milano.

 

Lotman, J.

1985, La semiosfera: l’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Marsilio, Venezia.

 

Pecchinenda, G.

2003, Videogiochi e cultura della simulazione, Laterza, Roma-Bari.

 

Pozzato, M.P.

2001, Semiotica del testo. Metodi, autori, esempi, Carocci, Roma.

 

Spaziante, L.

2000, L’ora della ricreazione. Reinterpretazione, cover, remix, in “Versus”, numero monografico, 85/86/87, pp. 235,249.

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Questo intervento è il seguito di un lavoro di analisi testuale di un particolare genere di videogiochi (i god games), ciononostante parleremo spesso di “gioco” e di “giocatore” perché riteniamo che le riflessioni qui esposte riguardino, più in generale, il fenomeno ludico.

[2] Questa duplicità è messa in luce sia da Saussure (1916) sia, in modo meno metaforico, da Eco (1973).

[3] “Riserviamo il termine significazione a ciò che ci sembra essenziale, cioè alla «differenza» - alla produzione ed alla scelta degli scarti – che definisce, secondo F. de Saussure, la natura stessa del linguaggio.” (Greimas, Courtés, 1979, voce Signification). La significazione è quindi intesa come la messa in opera di relazioni differenziali, come senso articolato.

[4] A partire dalla distinzione greimasiana tra prassi sacra, prassi estetica, prassi ludica e prassi pratica, fino all’elaborazione del celebre quadrato delle assiologie dei comportamenti di consumo ad opera di Floch.

[5] “Per ‘razionalità’ si intenderà ogni modo di assicurare l’intelligibilità del mondo o degli enunciati, riducendo la molteplicità fenomenica all’unità” (Geninasca, 1997, trad.it. p.74).

[6] Il concetto di razionalità mitica è di Geninasca (1997), ma ripreso dal pensiero mitico di Lévi-Strauss (1962).

[7] Il corpo proprio è l’istanza di mediazione tra l’io e il mondo. Fontanille (2004) distingue tra carne e corpo proprio: mentre la carne è la sede del livello sensomotorio dell’esperienza semiotica; il corpo proprio è la sede dell’identità in divenire che si costruisce nella semiosi in atto.

[8] Il videogiocatore è Matteo Bittanti,
(http://www.apogeonline.com/webzine/2000/03/23/01/200003230101)

[9] Intendiamo il dialogismo nella duplice accezione datagli da Bachtin (1963): sia come scambio dialettico tra testi e parole circolanti in un contesto socio-culturale, sia come scambio dialettico e ambivalente tra soggetto della parola e parola incarnata.

[10] Vedi anche Lotman (1985).

[11] Non a caso il campo dei videogiochi sta così prepotentemente modificando le prassi enunciative di una gran varietà di media, primi fra tutti cinema e televisione.

[12] Coquet distingue tra non-soggetto e oggetto come istanze in cui si declina il primo attante, cioè il soggetto del discorso in atto.

[13] I god games sono giochi di strategia in cui il giocatore è chiamato ad assumere veri e propri caratteri divini da esercitare nella creazione e nella gestione di una serie di micro e macrocosmi.

[14] Termine coniato da Kristeva (1969), nell’ambito del suo progetto di una semanalisi.