IL LINGUAGGIO E LE STRATEGIE
COMUNICATIVE DELLA MODA DI CLAUDIA GRAZIANI CAPITOLO 0 INTRODUZIONE |
Molto è stato detto e scritto
sulla moda. Ne hanno dissertato letterati, poeti, sociologi, psicologi ed
economisti . Ne parlano consumatori, giornalisti, negozianti, creativi, manager
e imprenditori. Eppure, come ogni argomento sfuggente che tuttavia tocchi
la sensibilità e il gusto di ogni individuo, sembra che tutto e il
contrario di tutto si possa ancora dire. Si afferma che è un argomento
futile, oppure serissimo, che la moda è quella delle sfilate e delle
riviste, oppure solo quella dei convegni istituzionali; si dice che non esiste
se non nella fantasia di chi la crea, che chiunque può costruirsi la
propria.
È difficile fornire una definizione del concetto di moda, anche perché
non esiste al riguardo un'interpretazione oggettiva e univoca.
Secondo il Grande dizionario Garzanti la moda è
"l'usanza più o meno mutevole che, diventando gusto prevalente,
si impone nelle abitudini, nei modi di vivere, nelle forme del vestire"
. Il fatto che il vestire rappresenti solo uno degli ambiti di significatività
della moda è confermato da Devoto, secondo il quale "La moda è
un principio universale, uno degli elementi della civiltà e del costume
sociale, che interessa non solo il corpo ma anche tutti i mezzi di espressione
di cui l'uomo dispone" . [Saviolo e Testa, 2000: 5]
Risalendo alla radice etimologica del termine, moda deriverebbe dal
latino aureo mos, nei diversi e correlabili significati di: a) usanza, costume,
abitudine, tradizione; b) legge, regola, norma; c) buoni costumi, moralità.
Un'altra ipotesi farebbe derivare il termine da modus, nei significati di:
a) misura, limite, norma; b) modo, maniera, genere; c) criterio o modalità
regolativa di scelte. Dall'insieme di tali significati si evince che il gusto,
benché espressione di un orientamento individuale, deve comunque confrontarsi
con un sistema di regolamentazione sociale, che definisce ciò che in
ogni periodo e luogo può essere considerato di moda. Non sembrerebbe
quindi casuale una supposta sovrapposizione etimologica tra "moda"
e "moderno", a sottolineare la dimensione evolutiva e istituzionale
del gusto. A conferma di tale matrice vi sono le espressioni francese, inglese
e tedesca mode, che derivano dal celtico mod o modd, con lo stesso significato
latino di mos: usanza, costume, foggia.
Complessità e fascino del fenomeno moda hanno consentito di studiarlo
da vari punti di vista. Una prima prospettiva di analisi è quella della
sociologia, che cerca di rilevare soprattutto i meccanismi e le dinamiche
sociali che consentono l'affermazione e la successiva diffusione delle varie
mode. I contributi di Veblen [1994] e Simmel [1957], ad esempio, si inquadrano
entrambi nel filone che riconosce l'importanza dei processi di differenziazione
sociale (distinzione, imitazione-affermazione, differenziazione: trickle down
theory, "gocciolamento verso il basso") o della "differenziazione
di classe": nella moda si verifica il convergere di un'esigenza di differenziazione
individuale e di uguaglianza sociale, e ciò presuppone appunto una
mobilità tra classi. Le discipline sociologiche si mostrano comunque
tutte piuttosto carenti nello spiegare, al di là dei processi di diffusione
sociale, significati e contenuti della moda: che cosa significhino, per esempio,
il ritorno a certe lunghezze, o l'alternarsi di determinati colori, il successo
di alcune scelte o il fallimento di altre. Un primo tentativo per spiegare
anche i contenuti della moda è rappresentato dagli studi psicologici,
che pongono di norma al centro delle interpretazioni la competizione sessuale.
In particolare Flugel approfondisce il tema del conflitto decorazione-pudore:
l'abito si carica degli equivalenti culturali del sesso, che ne perpetuano
la competitività in campo sociale quanto a potere, ricchezza, autorità.
In questa prospettiva, l'emulazione tra i sessi è vista come una chiave
per spiegare le tendenze di moda. Successivamente sono prevalsi approcci più
interdisciplinari. Tra questi, è da rilevare il contributo di Konig
, che distingue una prima dimensione del fenomeno, di tipo antropologico,
in cui evidenzia l'importanza dell'istinto del nuovo e della curiosità,
anche se da un punto di vista sociologico, per spiegare il cambiamento e la
diffusione, ammette la rilevanza delle teorie dell'imitazione-distinzione.
Ma con la produzione industriale di massa e redditi più elevati anche
nelle classi inferiori, lo schema trickle-down perde di validità, in
quanto si determina una diffusione dei fenomeni di moda anche orizzontale,
o addirittura dal basso verso l'alto. Si afferma così la teoria denominata
trickle across, che evidenzia i limiti dei precedenti presupposti riduzionistici,
per i quali centrale era quasi esclusivamente il concetto di status symbol
(imitazione, differenziazione) e serve a dare una prima spiegazione del perché,
al di là del fatto dinamico, alcuni contenuti di abbigliamento vengono
creati, diffusi e distrutti.
In tempi più recenti la moda è stato oggetto di attenzione anche
da parte della semiotica, che ha visto la necessità di comprenderne
significati e processi che, sul piano dei contenuti, legano i consumatori
ai produttori, ai distributori e all'editoria. Il nostro contributo intende
appunto analizzare il fenomeno della moda secondo la prospettiva semiotica,
seguendo l'evoluzione degli studi e delle riflessioni sviluppati nell'ambito
di questa disciplina. Riteniamo di poter considerare la moda come il sistema
di significazione per eccellenza, in grado di veicolare numerosi significati
legati all'identità personale e all'appartenenza socio-culturale di
ogni individuo. D'altra parte, la dimensione comunicativa della moda, anche
nelle sue apparenti negazioni ("l'abito non fa il monaco", ma evidentemente
lo comunica), è sempre stata evidente.
(1)Pascal considerò la moda come un fenomeno istintivamente
buono se in accordo con un gusto e con un modello naturale di piacere. Kant,
al contrario, vide la fonte della moda in un gusto corrotto dal desiderio
di un continuo cambiamento. Anche F. Hegel la considerò come una forma
mobile di vanità da cui è assente il gusto o la ricerca del
bello. Invece Charles Baudelaire nella contingenza stessa della moda intravide
un'aspirazione e una tensione al bello, congiunta a un elemento transitorio
e relativo. L'analisi di Baudelaire fu esplicitamente ripresa da Walter Benjamin,
che definì la moda "l'eterno ritorno del nuovo".
(2)Il grande dizionario Garzanti della lingua italiana, Garzanti, 1993.
(3)G. Devoto, Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier,
1995.
(4)J.C. Flugel, The psycology of Clothes, Hogarth Press,
New York, 1930.
(5)R. Konig, Potere della moda, Liguori, Napoli, 1976.
Il "pioniere" di questi studi è
senza dubbio Roland Barthes, al cui contributo è dedicato l'intero
primo capitolo. È proprio grazie a lui che il fenomeno della moda comincia
a essere concepito come un meccanismo di significazione esemplare, che racchiude
al suo interno diversi aspetti degni di interesse. Il Sistema della Moda [1967a]
può essere visto come il "capostipite" degli studi semiotici
sulla moda: da questo momento in poi nessuno studioso che vorrà analizzare
questo fenomeno potrà esimersi da un confronto con Barthes. Il suo
assunto di partenza consiste nell'applicazione agli studi sul costume di alcune
categorie proprie della linguistica saussuriana (langue/parole, sincronia/diacronia,
significante/significato). Questa analogia gli consente di postulare una prospettiva
disciplinare unitaria per lo studio della lingua e del vestito: dato che entrambi
rappresentano dei sistemi di significazione, questa prospettiva unitaria non
può che essere fornita dalla semiologia.
Nel momento in cui Barthes si appresta a un'analisi semiologica del vestito,
incontra però evidenti difficoltà procedurali, che lo portano
a compiere una "scelta tattica": restringere la sua analisi a un
sottoinsieme particolare all'interno dell'universo-moda, ossia la moda scritta
presente nelle riviste, nell'ambito della quale è possibile "veder
funzionare la significazione, per così dire, al rallentatore, nella
scomposizione dei suoi tempi." [Barthes, 1959: 83] Si arriva così
all'analisi strutturale delle riviste di moda che è alla base del Sistema
[1967a]. La sua intuizione principale è che, nell'ambito di queste
riviste, la significazione di moda è completamente affidata alle didascalie.
Il vestito, in quanto oggetto reale, viene preso a carico da un secondo sistema,
che è quello linguistico: quest'ultimo, sottoforma di una nomeclatura,
"nomina" ciò che nell'abito costituisce la significazione
specifica della moda, evidenziando i particolari su cui la lettrice dovrà
soffermarsi. Attraverso il suo articolato percorso, Barthes arriva così
a sostenere la primarietà della lingua, che ha un ruolo decisivo per
la determinazione di ciò che in una certa stagione viene considerato
alla moda, in quanto ancora dei significati espliciti ai significanti vestimentari.
Non bisogna però interpretare in modo "riduttivo" questa
presa di posizione di Barthes. Egli, infatti, come sottolinea Marrone [1995],
non studia soltanto il linguaggio della moda lasciando da parte l'eventuale
moda reale: comprende piuttosto che la moda non è nient'altro che un
sistema di significazione, è l'attribuzione di un senso e di un valore
specifici a un oggetto di per sé "inerte". È dunque
consapevole del fatto che la moda oscilla tra la concretezza degli oggetti
vestimentari e i discorsi che si possono fare su di essi.
La moda, scopre Barthes dopo diverse esplorazioni, è una curiosa entità
che trae la propria essenza dall'interstizio tra le parole e le cose: non
propriamente linguistica, essa non può fare a meno del discorso per
affermarsi; non propriamente reale, essa non può al contempo prescindere
da un qualche aggancio ontologico. La Moda si produce e si sostiene solo nel
processo di trasformazione, o di traduzione, che dal mondo porta alla lingua
e da quest'ultima torna al mondo." [ibid.: 143]
È proprio nel passaggio che dall'insensato porta al sensibile, e da
questo al sensato, che la moda affonda le proprie radici e costruisce le proprie
retoriche. I vestiti generano delle interpretazioni, interpretazioni che a
loro volta modificano i vestiti stessi (trasformandoli in abiti alla moda),
influenzando in questo modo i gusti e le abitudini delle persone.
Partendo da questa consapevolezza, si può scorgere una qualche continuità
tra le assunzioni di Barthes e i successivi studi condotti in un'ottica sociosemiotica.
Ciò non significa ovviamente negare che l'emergere di questa prospettiva
abbia segnato un punto di svolta determinante nello studio della moda e, più
in generale, di tutti quei fenomeni di significazione a forte caratterizzazione
sociale. In quest'ottica, la moda e tutte le pratiche a essa connesse vengono
considerate come dei testi, ognuno con propri codici, regole e grammatiche,
che rimandano a specifici significati sociali (che possono andare dall'identità
personale, all'appartenenza socio-culturale, alla contestazione delle regole
sociali). Nell'ambito della nostra società, poi, questi testi vengono
"presi a carico" dai giornali, dalla televisione, dal cinema, dalla
pubblicità, che li raccontano e che rappresentano, a loro volta, testi
con propri specifici linguaggi. Siamo dunque di fronte a testi che traducono
altri testi, discorsi che traducono altri discorsi, linguaggi che traducono
altri linguaggi. In questa dinamica, ciò che diviene interessante è
proprio la complessa rete di relazioni attraverso cui i fenomeni sociali vengono
raccontati da altri testi che, a loro volta, li modificano, incidendo nella
loro costruzione: tali scambi reciproci costituiscono in definitiva le significazioni
sociali che interessano la sociosemiotica.
Come vedremo nel secondo capitolo, l'affermazione della prospettiva sociosemiotica
permette di osservare "sotto una nuova luce" tutti gli elementi
e i meccanismi caratteristici del sistema moda. In questo senso, riteniamo
esemplare il contributo di Floch [1995], che analizza il total look di Coco
Chanel come un discorso, soffermandosi sulle sue dimensioni figurativa e plastica.
Alla fine della sua analisi, ritiene poi utile andare ad analizzare gli scritti
di Chanel, per individuare anche nei suoi discorsi verbali le caratteristiche
del suo discorso plastico: è proprio grazie ai continui rimandi tra
i vestiti creati dalla stilista e i testi da essa scritti che si generano
le significazioni di moda.
La prospettiva sociosemiotica permette dunque di analizzare il fenomeno della
moda considerando tutti i tipi di discorso che si distribuiscono al suo interno.
Ma permette anche di analizzare le varie modalità attraverso cui la
moda e la società si correlano, influenzandosi reciprocamente. Una
delle ragioni che rendono la moda così interessante è proprio
la sua capacità di riflettere gli umori fondamentali della vita sociale.
Come spiegare la svolta della fine degli anni sessanta meglio che con i jeans,
le romantiche mantelle e le barbe degli studenti rivoluzionari e le gonne
a fiori e gli zoccoli delle femministe? Come raccontare gli ottanta esibizionisti
meglio che con qualche abito shock di Versace o con l'eccesso beffardo di
Moschino e di Lacroix? [Volli, 1998: 21]
I cambiamenti sociali intervenuti negli ultimi decenni hanno così lasciato
una traccia indelebile nel sistema moda, che non è più in grado
di imporre delle oscillazioni omogenee dei gusti. Diversi autori, per descrivere
la situazione attuale, parlano di un passaggio dalla moda agli stili: i consumatori
non sono più posti di fronte a un globale cambiamento "stagionale",
bensì a un dispiegamento in parallelo di stili diversi. Questa "moda
come stili" va contro l'idea stessa di moda, strettamente legata alla
novità, al cambiamento, all'obsolescenza. Possiamo proclamare dunque
la fine della moda? Secondo il nostro parere non lo si può fare, a
patto però di estendere il concetto stesso di moda. In passato questo
concetto era associato solo all'abbigliamento, e in particolare al segmento
più qualificato dell'abbigliamento femminile: l'alta moda e, più
di recente, il prêt-à-porter. Negli ultimi decenni, invece, si
è diffuso a segmenti di consumo sempre più estesi: pelletteria
e calzature, profumi e cosmetica, occhiali, oggettistica, mobili e complementi
d'arredo, fino a comprendere località meta di viaggi e specie di animali
domestici. Qualcuno afferma che oggi si possa in qualche misura parlare di
moda persino in settori molto lontani dalla dimensione estetica e del gusto,
come l'informatica, la ricerca scientifica, la giurisprudenza. Se si vuole
avere una visione completa di questo fenomeno, dunque, non ci si può
arrestare all'analisi dei cambiamenti ciclici introdotti nel settore dell'abbigliamento.
La sua influenza va infatti ben oltre questo campo, interessando i mutamenti
culturali e sociali di ogni genere.
È proprio in virtù di questa consapevolezza che abbiamo ritenuto
utile dare spazio ad alcuni dei lavori che, coerentemente con la prospettiva
sociosemiotica, hanno cercato di analizzare i nessi che intercorrono tra l'abbigliamento
- o, più precisamente, tra la comunicazione vestimentaria - e i processi
di costruzione delle identità individuali e sociali. Particolarmente
interessante appare, a questo proposito, il contributo di Landowski [1995],
che concepisce la moda come una procedura di produzione e di gestione delle
identità collettive, mediante la regolazione dei tempi sociali e la
segmentazione dello spazio sociale. Questo gli consente di svincolare il concetto
di moda dal settore dell'abbigliamento, assumendolo come un fenomeno che riguarda
tutti gli aspetti della società e che influisce anche nella sfera politica.
Altri studiosi si pongono in questa ottica: Grandi [1995] si interroga in
merito all'influenza che le caratteristiche della nostra era postmoderna esercitano
sull'efficacia normativa della moda; Tropea [1995] e Polhemus [1995] riflettono
sulle subculture, sottolineando la centralità dello stile nell'affermazione
della loro identità.
Per completare la nostra "panoramica"
sul fenomeno moda, abbiamo ritenuto opportuno dedicare il terzo capitolo alla
comunicazione di moda, soffermandoci in particolare sui meccanismi di informazione
e di influenza di cui si avvalgono - in maniera volontaria e organizzata -
le imprese di moda. La comunicazione rappresenta senza dubbio un fattore discriminante
per il buon funzionamento e per il successo di queste imprese: esse devono
dunque imparare a gestirla in modo appropriato, sfruttandone a pieno le potenzialità.
Il nostro contributo intende appunto mettere un po' d'ordine nel "campo
sconfinato" della comunicazione di moda, ponendo alcuni paletti che possano
servire da guida agli analisti, ma anche alle imprese stesse che si trovano
a confrontarsi con le problematiche a essa connesse.
Dopo un excursus sull'evoluzione che la comunicazione di moda ha avuto nel
tempo e sulle prospettive che si intravedono per il futuro, intendiamo dunque
fornire una presentazione dei principali strumenti di comunicazione a cui
le imprese possono ricorrere, evidenziandone le potenzialità e i limiti,
ed eventualmente suggerendone le strategie di impiego più adeguate.
È bene che ogni azienda abbia ben chiaro che, per far sì che
le sue azioni comunicative siano efficaci e raggiungano gli obiettivi a cui
mirano, deve adottare un concetto allargato di comunicazione. Nella comunicazione
oggi non rientrano più solo la pubblicità o le pubbliche relazioni.
La stessa pubblicità (sia su carta sia televisiva) non ha più
un'anima razionale ("informare e convincere") bensì emozionale
("sedurre"). Comunicare significa lavorare con le nuove tecnologie
(da Internet ai videogiochi) e soprattutto esprimere la filosofia della propria
azienda in ogni modo, non solo tramite la letteratura aziendale, ma anche
con le proprie vetrine, il direct marketing, il customer service, ecc. La
marca va creata, gestita, sostenuta e protetta: per un'azienda di moda essa
rappresenta ben più che un semplice logo, evoca un'atmosfera, un valore
aggiunto che non va mai trascurato. Questo insieme di fattori tangibili, che
attraggono il consumatore e ne assicurano la fedeltà, ha un peso economico
non indifferente, rappresenta una vera e propria arma contro i concorrenti
ed è vitale per la crescita (se non addirittura per la sopravvivenza)
dell'azienda.
È necessario dunque guardare alla comunicazione come a un processo
che attraversa trasversalmente tutta l'azienda e che si manifesta in una serie
di messaggi, che hanno una rilevanza autonoma ma che rappresentano al tempo
stesso dei tasselli di un progetto più grande, che può essere
definito come comunicazione integrata. Si tratta di un disegno strategico
in base a cui tutte le azioni comunicative vengono portate avanti con la consapevolezza
che l'estrema articolazione dei mezzi utilizzati e l'interconnessione degli
effetti della comunicazione sui vari pubblici richiedono una visione unitaria
e complessiva della comunicazione. Ciò comporta l'uso sinergico e scientifico
di tutti i mezzi finalizzati alla conquista di un determinato obiettivo. Comunicare
in modo integrato è una necessità strategica soprattutto nel
caso di una marca che deve veicolare valori intangibili legati a un progetto
di vita: "una marca non può essere descritta, ma il marchio che
la indica è un compressore di elementi che veicolano un progetto."
[Saviolo e Testa, 2000: 243]