IDENTITA’ E IMMAGINE.

Nella marca, nella società, nelle persone

Mauro Ferraresi

 

 

Introduzione

I due termini che danno il titolo a questo libro esprimono concetti molto articolati. Il tema dell’identità è legato a quello del soggetto, e ciò basta perché, anche solo per cercare di definirlo, si renda necessario prendere in carico una vastissima area del pensiero umano poiché, per rimanere soltanto all’interno della cultura occidentale, le riflessioni su questo specifico argomento sono state avviate sin dai presocratici. Inoltre, il tema dell’identità non appartiene a una singola disciplina. E se è vero che è stato a lungo appannaggio della filosofia, in tempi più vicini la sociologia, la psicologia, la psicanalisi, la logica, la biologia e la chimica e le scienze composte come la biochimica, oppure le più recenti, come la cibernetica e la computer science, la biologia molecolare, l’informatica e l’elettronica, per citarle non certo tutte quante, si sono appropriate a vario titolo e certamente con intenti e scopi molto diversi del tema della identità. Ognuna di queste discipline ha cercato di stringere dappresso questa anguilla scivolosa. E da quando la psicanalisi aveva decretato con Freud che essa era solamente il terreno di contesa di Es e Super-io, e che quindi mancava di una sua precisa collocazione, e da ciò la sua scivolosità, si è compreso meglio il paradosso secondo cui la questione dell’identità manca in effetti di una precisa identità1.

Questo lavoro si propone di affrontare tali aspetti attraverso alcune drastiche scelte di campo.

Innanzi tutto, lo si vedrà, identità e immagine verranno incrociate in modo tale che l’una non sia pienamente comprensibile senza l’altra. In secondo luogo il riferimento principale e il terreno pratico di riscontro sul quale misurare le questioni che man mano emergeranno sarà quel particolare fenomeno sociale, comunicativo e di consumo che è la marca.

Si comprenderà comunque abbastanza in fretta, questa perlomeno è la speranza, che affrontare la marca studiandone identità e immagine significa inevitabilmente debordare da quel territorio e parlare anche di altri concetti a questa affini, contigui. E questo accade perché per esempio l’identità è indissolubilmente legata al soggetto, come si diceva sopra, e quest’ultimo, a sua volta, è legato all’individuo e alla comunità (società) in cui esso vive. Ecco perché il sottotitolo pensato per questo lavoro non poteva essere altro che lo studio di identità e immagine a partire dagli aspetti presenti nella marca, nella società e pure nelle persone. Non si tratta di segnali di un desiderio di onnipotenza, ma della, crediamo umile, presa di coscienza del fatto che abbiamo a che fare con aspetti molto interrelati tra di loro. Anche se a prima vista appaiono differenti, marca, società e soggetto che qui, per semplificare, definiamo persona, hanno in comune il fatto che debbono buona parte della loro costituzione proprio al possedere una identità e una immagine, qualsiasi cosa si intenda con questi due termini. Che cosa c’è infatti di più diverso, apparentemente, di una marca e di una persona? Noi stessi in un precedente lavoro che qui mi permetto di ricordare, abbiamo a lungo puntato l’attenzione sulle differenze incolmabili che correvano proprio tra queste due realtà2. Eppure tra i due concetti corre un filo rosso. Entrambi guadagnano la loro rilevanza sociale attingendo a una determinata identità e a una determinata immagine. Questo non deve però autorizzare a cercare insistiti parallelismi tra marca e persona. Non si avrà mai per esempio per la marca la possibilità di definirne il carattere pensandolo come il carattere di una persona. Sarebbe un esercizio fuorviante. E lo stesso si può dire di ogni fatto sociale degno di nota. Esso può possedere una identità e una immagine, pensiamo per esempio al fenomeno del calcio inteso come fatto sociale dove, indubbiamente, siamo in presenza di una precisa identità e di una immagine ben connotata. Ma ciò non significa né autorizza a trattare quel fenomeno come se fosse una persona e come tale provare a descriverlo e comprenderlo.

Il presente lavoro cercherà di studiare le due categorie anche attraverso una serie di applicazioni ed esemplificazioni effettuate su alcuni enti; siano questi marche, oppure persone, oppure realtà sociali. Si condurrà un’analisi di casi per comprovare la bontà delle definizioni proposte e per comprendere meglio la strana pasta di cui anche noi siamo costituiti con i nostri processi di identità e nei nostri sistemi di immagini.

 

 

CAPITOLO PRIMO

1. IDENTITA’ E IMMAGINE

 

 

1.1 Da dove partire

E’ importante ripercorrere i principali punti di partenza, o a meglio dire i principali dubbi e le più sentite perplessità, che hanno prima ipotizzato, poi sempre più sollecitato la stesura di questo libro.

Quando ci si accosta al tema dell’identità e della immagine non si può non rimanere colpiti dalla complessità dei due concetti e dalle relazioni ch’essi mettono in campo. Per quel che ci riguarda ci siamo avvicinati al tema attraverso lo studio della marca. E da lì vogliamo ripartire per approfondire la riflessione. Il lettore voglia perciò perdonare se queste prime righe risultano molto autocentrate, raccontano cioè il percorso mentale che l’estensore di queste note ha compiuto. Una sorta di diario intellettuale incentrato su quello specifico argomento. Questo percorso ci appare necessario per comprendere quei problemi che si cercheranno poi di risolvere.

Anni fa David Bernstein (1984) aveva affermato che l’identità era un fenomeno comunicativo che in qualche modo perteneva all’emittente o enunciatore; mentre l’immagine era e restava un fenomeno che trovava la sua collocazione nell’occhio, nella mente, nel pensiero del ricevente o enunciatario. Questa bipartizione abbastanza netta fu ripresa poi da Kapferer nei suoi studi sulla marca (1995) e in parte da Ferraresi (sic) (1999, p.45, 2002, p.111) Insomma si riteneva che l’identità fosse da costruire e irrobustire pian piano, processo lungo e sofisticato che la marca stessa si incaricava di mettere in atto; mentre l’immagine risultava un fenomeno in qualche modo ricostruito da parte di chi riceve i messaggi della marca. Si mostrano quindi come il risultato di due atti intenzionali, di cui l’identità era definibile come un atto primo o precedente, mentre l’immagine era un atto secondo, di ricostruzione, e quindi conseguente.

Un tale suddivisone appare indubbiamente molto statica e meccanica. Semprini non ne rimase certo entusiasta quando affermò che essa era il frutto di una eccessiva "logica meccanicistica" alla cui base stava "una teoria della comunicazione obsoleta" che per definizione non riesce a rendere conto dei processi dinamici e interrelati tipici di ogni processo di comunicazione, anche di quello inaugurato dalle marche che Semprini definisce a ragione "oggetti semiotici" (Semprini, 1993, pp.72-3).

Codeluppi aggiunse in proposito che il messaggio della marca era piuttosto il frutto di una dialettica costante che si metteva in atto tra l’emittente e il destinatario (Codeluppi, 1997, p.147). Ce ne era abbastanza per far riflettere. Le obiezioni erano certamente da tenere in considerazione, e il modo di interpretarle e aggiustarle, pur tenendo conto di quelle che allo scrivente sembravano giuste intuizioni sia di Bernstein sia di Kapferer, è stato un compromesso che qui corre l’obbligo di riportare per esteso, poiché da quel punto ripartiremo per definitivamente abbandonare queste nostre posizioni. Si sa, cambiare spesso idea non è bene, ma anche coloro che non la cambiano mai sono da guardare con forte sospetto.

Ecco dunque come cercammo di salvare sia l’intuizione di Bernstein e Kapferer sia le obiezioni di Semprini e Codeluppi.

Per dare quindi conto della felice intuizione di Bernstein e Kapferer su identità e immagine, tenendo però presenti le obiezioni in merito sia di Semprini sia di Codeluppi, affermiamo che l’identità produce l’immagine, mentre l’immagine riproduce identità. Costituendo così un circolo. Questo però non deve cancellare la chiarezza delle prime distinzioni di Bernstein: chi produce identità non è il ricevente ( se non in un senso secondo); così come chi interloquisce con l’immagine di una marca e la fabbrica non è l’emittente. (Ferraresi, 2002, p.112)

L’ansia di trovare un compromesso ci ha fatto accettare e considerare positivamente la "chiarezza delle prime distinzioni di Bernstein". Non è così. Non sono chiare, sono sbagliate. E cercheremo di spiegare perché.

 

1.2 Processo e sistema

Per comprendere come funzionano l’identità e l’immagine di una marca diventa necessario aiutarsi con due categorie linguistiche e semiotiche: il sintagma e il paradigma. Occorre porre mente al funzionamento di questi due elementi linguistici e in seguito osservare se tale funzionamento ci insegna qualche cosa riguardo al modo in cui si manifestano identità e immagine. Noi crediamo di si.

In generale quando si attua un qualsivoglia processo di comunicazione indipendentemente dal codice verbale impiegato, verbale o iconico, si mettono in campo due importanti azioni linguistiche. La prima azione ha a che fare con il "magazzino della memoria" che ciascun parlante possiede e che racchiude i termini e le regole della lingua ch’egli sta impiegando3. Questo magazzino della memoria permette di selezionare, volta a volta,i termini adatti e le regole che servono per poter asserire quella determinata frase.

Una volta selezionati questi termini essi vengono combinati, uno in fila all’altro in una vera e propria catena lineare, che costituisce la frase.

Se nel magazzino della memoria è contenuto tutto il lessico della lingua italiana, il parlante deve selezionare precisamente quelle parole che gli servono per costruire, a esempio, la seguente frase

Luigi si è infortunato giocando a tennis

nella quale ogni parola selezionata ha trovato un proprio posto e una collocazione nella catena lineare dell’enunciato, cioè appunto nella frase.

Accanto a questa prima operazione di selezione vi è una operazione detta di combinazione che si incarica di combinare le parole tra loro nella giusta sequenza. Per cui nella frase

Tennis è giocando Luigi a infortunato si

si può supporre che ci sia stata una operazione di selezione ma non ancora una operazione di corretta combinazione, e la frase così espressa cade effettivamente sotto l’accetta della incomunicabilità. Ma soffermiamoci un momento a riflettere che potrebbe anche essere il contrario. C’è stata una operazione di combinazione ma l’operazione di selezione non è stata ancora compiuta.

Non bisogna ritenere che l’operazione di selezione venga prima di quella di combinazione e che comunque tutto ciò accada seguendo una normale successione temporale. O perlomeno la faccenda non ci pare così semplice perché le due operazioni sono mutuamente interrelate. Nel magazzino della memoria ci sono oltre alle parole anche tutti gli altri livelli di cui si compone una lingua. Tali livelli sono stati scoperti e utilizzati nel corso dei secoli dalla linguistica allo scopo di meglio padroneggiare e comprendere quell’oggetto complesso che è la lingua. Ogni livello d’analisi può essere affrontato separatamente e può dare vita a specifici filoni di studio, la maggior parte dei quali, come si diceva, presenti fin dall’antichità.

I livelli sono (almeno) i seguenti: fonologia, morfologia, sintassi, lessico.

La fonologia si occupa dei suoni della lingua e delle funzioni che tali suoni hanno per creare le differenze portatrici di significato. Quelle differenze, a esempio, che fanno si che quattro pronunce come /pare/; /pa:re/; /paere/ e /pae:re/, pur presentando diversità fisiche di suono vengano comprese, nelle varie regioni italiane, come occorrenze sonore facenti riferimento a un medesimo significato. Ma è sufficiente commutare anche solo di un poco la terza o la quarta pronuncia elencate per ottenere /pere/ e quindi ricavare un significato completamente nuovo. Come mai le precedenti mutazioni di suono non hanno portato a mutazioni di significati mentre l’ultima si? A queste domande cerca di rispondere la fonologia.

La morfologia si occupa invece delle modificazioni derivative e flessive di un termine. Detto diversamente, essa si occupa di tutto ciò che occorre in una lingua per costruire nuove parole da parole date. Per esempio, /contraffare/ è una modificazione derivativa della parola /fare/. Inoltre, la morfologia si occupa di tutto ciò che occorre in una lingua per flettere un nome in un plurale, o in un femminile (come uomo, uomini; bello, belle) o un verbo nelle varie persone, modi e tempi.

La sintassi si occupa "delle modalità di combinazione delle parole in unità di livello superiore" (Simone, 1994, p.183). E’ la padronanza della sintassi di una lingua quella che ci permette di articolare le parole in una frase e questa in un discorso. Ed è sempre la sintassi che sorregge chi scrive nell’intento di costruire un testo lungo e articolato come a esempio un libro.

Il lessico, infine, è il livello di analisi che si occupa delle parole, della ricchezza terminologica di una lingua, ma anche del modo in cui le parole intervengono per sostituire o coadiuvare determinate esigenze grammaticali. Per esempio, in inglese mancando la grammaticalizzazione femminile del termine /gatto/ si ricorre alla forma lessicale, cioè si aggiunge una parola acconcia, per rendere il femminile /gatta/. Conseguentemente, in inglese il femminile di the cat =gatto è the she-cat = il lei-gatto.

Nel magazzino della memoria sono allocati e ben presenti, ma mai del tutto esplicitati, a meno che non si stia parlando del magazzino della memoria di un esperto linguista, tutti questi livelli. E a tutti questi livelli ci deve essere scelta e combinazione. Le due operazioni devono avvenire insieme, o al più divise da una frazione di tempo che noi, parlanti consumati, non facciamo più in tempo a percepire.

E questa quasi contemporaneità e relazionalità della selezione e della combinazione che fa dire a Volli:"Ogni elemento di un processo comunicativo si può pensare come se fosse situato all’intersezione di due assi: l’asse degli elementi che nella comunicazione di fatto lo accompagnano,lo precedono o lo seguono, che insomma gli sono contigui (che è detto asse del processo o del sintagma) e quello degli elementi che potrebbero sostituirlo in quella comunicazione, poiché gli sono funzionalmente simili o equivalenti ( e questo è detto asse del sistema o del paradigma)."(Volli, 1984, p. 67)

Insomma, produrre comunicazione significa fare lavorare l’asse del sistema e l’asse del processo, ovvero significa selezionare e combinare.

Proponiamo a questo punto una tabella riassuntiva.

Quando si compie l’operazione di selezione si ottiene

· Un paradigma ( questo è il nome linguistico che gli viene dato).

· Un sistema ( vedremo più avanti perché).

· Un insieme di scelte sostitutive composte di tante o…o…o. ( e anche questo verrà presto spiegato).

Invece, quando si compie l’operazione di combinazione si ottiene

· Un sintagma ( la definizione linguistica).

· Un processo.

· Un insieme di combinazioni composte di tante e…e…e….

 

E’ stata una tradizione terminologica ormai consolidata che risale a Saussure (1967) che ha deciso che l’asse su quale si dispongono linearmente gli elementi linguistici e si combinano tra loro si chiami asse sintagmatico e, brevemente, sintagma.

Invece il magazzino della memoria nel quale sono selezionati gli elementi che entreranno poi nella catena lineare dell’enunciato, cioè nella frase, sono detti con un termine proposto da Hjelmslev (1949), elementi dell’asse paradigmatico e, brevemente, paradigma4.

L’asse paradigmatico, è detto asse delle disgiunzioni perché o si sceglie un elemento o un altro o un altro ancora, ma questi elementi non possono mai convivere: la scelta dell’uno esclude l’altro. L’asse sintagmatico è invece detto asse delle congiunzioni, poiché il suo gioco consiste nel combinare sulla catena lineare un elemento e un altro elemento e un altro elemento, così via e potenzialmente all’infinito. Ecco perché l’asse paradigmatico viene esemplificato come se fosse una successione di opposizioni che una volta effettuate non sono mutuabili tra loro, o…o…o… Mentre l’asse sintagmatico viene esemplificato come se fosse una successione di congiunzioni, e…e…e…. E, in effetti, il nostro modo di produrre asserzioni, enunciati, frasi è sottoposto a entrambe queste regole. In un primo momento devo decidere se scegliere il termine /casa/, oppure /cartapecchia/ oppure /baracca/, oppure /capanna/, è una volta scelto il termine ciò mi esclude obbligatoriamente che uno qualsiasi degli altri termini possa essere compresente. La scelta si deve quindi combinare con altri termini, a loro volta selezionati, per produrre, congiungendo i termini tra loro, la frase. Per esempio nel caso seguente

Quella catapecchia brucia

/catapecchia/ poteva essere sostituito da altre parole presenti nel magazzino della memoria, ma una volta scelta non resta che combinarla con ciò che viene prima e ciò che segue.

I due assi non manifestano simmetria tra di loro. Funzionano in maniera differente. Aiutandoci con le considerazioni di Volli in merito, portiamo due esempi per spiegare meglio questo punto5. L’asse paradigmatico crea un sistema che si sviluppa per ramificazioni, le quali nascono da opzioni da cui non si può tornare indietro. La regola che organizza le opzioni è quella della somiglianza. Per esempio nell’organizzare le vacanze estive ci si trova davanti a una serie di opzioni per cui si deve scegliere se si va in Italia o all’estero. Se si va in Italia allora bisogna decidere se in montagna o al mare. Se in montagna allora bisogna decidere se si vuole andare in Trentino o in Val d’Aosta. Se si va in Val D’Aosta occorre decidere se in albergo o in una casa. Se si va in albergo allora bisogna decidere se mezza pensione o pensione intera. E così via. Per semplificare abbiamo posto solamente opzioni binarie, per esempio abbiamo molto semplificato la scelta geografica riducendola a due regioni, anche se naturalmente l’offerta italiana di stazioni montane è molto più variata e coinvolge molte più regioni. Lo schema risultante potrebbe essere il seguente.

 

 

 

Il sistema delle vacanze

Uno sguardo allo schema e alla sua forma chiarisce perché si può parlare di sistema. In effetti sembra di osservare il sistema logico delle (possibili) vacanze di una famiglia media italiana. Ed è un sistema che mette insieme, senza darsi troppo la pena di specificare e dirimere, elementi geografici con elementi abitativi con modalità di fruizione del soggiorno. L’analisi del grafico ci dimostra che l’osservazione ripresa da Volli (ibidem p.68), secondo la quale la regola che regge il sistema delle opposizioni paradigmatiche risulta quella della somiglianza, ci appare angusta, non esatta6.Quelle opzioni possono essere considerate equivalenti , e quindi simili, solamente se si prende in considerazione la loro funzione. Nel nostro caso essa ha a che fare con il tema delle vacanze, e all’interno di quel tema le opzioni sono, in effetti, mutuamente interscambiabili. Andare in montagna o al mare significa porsi davanti a una scelta che, comunque vada, adempie al medesimo scopo, quella di trascorrere le vacanze. E sempre badando a questa funzione il sistema può complessificarsi aggiungendo altre opzioni che, a quel punto, non sono più di tipo geografico ma, per esempio, di tipo abitativo come la scelta tra una albergo, una pensione o uno chalet.

L’asse sintagmatico, diversamente, non crea un sistema ma una sorta di catena nella quale gli elementi si combinano in serie con altri elementi che precedono e che seguono. Sempre rimanendo in tema, le vacanze sono da considerarsi un momento dedicato a se stessi e al relax. In questo senso esse rientrano in un processo più ampio che, per comodità potremmo situare nell’arco temporale di un anno, e la cui struttura potrebbe essere la seguente. I segni + indicano iteratività

 

 

Vacanze nel corso di 12 mesi

Vacanze estive

+Fine settimana+

Vacanze natalizie

+Fine settimana+

Vacanze di Pasqua

+Fine settimana+

Ponte del Primo Maggio

+Fine settimana+

 

 

Le caselle presenti in questo processo coprono tutte le possibilità nell’arco temporale di un anno. Poi, le stesse, si possono ripetere uguali anno dopo anno. Ma certo dipende, nel nostro esempio, dalla forza economia delle famiglie. In quella risiede la possibilità di rispettare tutte le caselle, o, a meglio dire, di riempirle con contenuti consoni. Il processo indica soltanto quante caselle di riposo/vacanza esistono in un dato periodo. Come va sfruttata ciascuna casella è interpretazione che varia da famiglia a famiglia, o da individuo a individuo, e dipende oltre che dalle possibilità economiche anche dalle strutture sociali e dalle tendenze al consumo che nelle società avanzate producono, in specifico, un continuo aumento dell’impiego di tempo libero sotto forma di vacanze, viaggi, crociere, visite in siti archeologici, musei, ecc… Per esempio i fine settimana possono essere impiegati tutti o in parte in gite fuori porta, visite in città d’arte, relax in agriturismo e più genericamente in campagna, oppure, se il tempo e la stagione lo consentono, gite al mare. E’ da considerare una decisione di stampo culturale,cioè definita dai confini della nostra cultura, quella di prendere l’anno come tempo di riferimento. Si sarebbe potuto benissimo limitare il processo all’interno di una sola stagione, oppure in un lasso temporale non fondato sul calendario gregoriano. Le vacanze, e più in generale il tempo libero, sono analizzabili sotto forma di processo e di sistema anche perché esse sono ideologicamente compatibili e accettate, anzi, per certi versi incoraggiate. dalla nostra società, come si vedrà più avanti.

Gli assi del processo e del sistema sono stati impiegati per analizzare numerosi fenomeni sociali anche molto diversi tra loro. I sistemi di parentela (Levi Strauss), due particolari tipi di difetti linguistici, le afasie, analizzati da Jakobson come rispondenti, rispettivamente, uno alla logica del sistema e l’altro a quella del processo, e poi ancora due importanti figure retoriche come la metonimia e la metafora, ma anche i cosiddetti network di consumo e le identità visive7. Il fatto è che essi creano una struttura generale che può andare bene per spiegare il funzionamento di molte altre strutture.

Processo e sistema ricoprono più ruoli

 

Claude Lévi-Strauss ha mostrato che, esaminandoli in maniera così astratta, vi sono sempre omologie strutturali importanti fra aspetti lontani delle diverse culture, come la cucina e i miti, l’economia e i sistemi parentali.(Volli, 1994, p. 69)

 

Si può aggiungere che gli assi del processo e del sistema definiscono e organizzano le risorse culturali e sociali di una comunità, e anche le loro risorse comunicative. Ma in questa loro azione essi sono a loro volta culturalmente, ideologicamente e socialmente definiti. Il tema della vacanza, per esempio, è accettato e anzi incoraggiato nella nostra società; esso è ideologicamente compatibile con la forma capitalistica dell’economia. Non tanto e non solo perché, marxianamente, il riposo serve a ricostituire la forza lavoro. Esso è importante perché è diventato una forma di consumo consono e coerente con una società che sul consumo basa la propria saldezza economica. Il tempo libero è libero da tutto ma non dall’obbligo di consumare: un viaggio, un soggiorno in albergo, una entrata in un museo, un affitto di un ombrellone e due sdraio… ogni passo compiuto durante il nostro cosiddetto tempo libero è in realtà scandito da atti di consumo.

Va infine osservato, en passant, che l’esempio delle vacanze è stato scelto per comodità ed è stato costruito in modo tale da formare un universo chiuso. Ciò è in parte una forzatura che in ambito linguistico, là dove sintagma e paradigma sono nati, non troviamo. In ambito linguistico sintagma e paradigma sono aperti. Il magazzino della memoria è potenzialmente espandibile all’infinito, mentre la catena lineare del processo può essere lunga a piacere. Si può infatti, teoricamente, esprimere asserzioni di dimensioni sintagmatiche, frastiche oppure transfrastiche come i testi che potrebbero essere lunghi all’infinito, e dare vita a una catena sintagmatica illimitata. Questa teorica illimitatezza di sintagma e paradigma ci tornerà utile quando parleremo specificatamente di identità e immagine.

 

1.3 Processo dell’identità e sistema dell’immagine

 

Due affermazioni del paragrafo precedente ci servono come viatico per proseguire il nostro percorso. La prima affermazione recita che sistema e processo sono culturalmente e ideologicamente determinati. Ed è quello che abbiamo cercato di dimostrare con l’esempille vacanze. L’esempio è stato possibile perché il concetto di vacanza è condiviso e accettato nella nostra società e perché ragioni sociologiche, culturali e anche ideologiche confinano le vacanze in determinati periodi dell’anno e il riposo in determinati giorni della settimana. A partire da questa condivisione culturale abbiamo potuto applicare gli schemi sintagmatici e paradigmatici.

La seconda asserzione aggiunge che, una volta impiegati nell’analisi di un fenomeno, sistema e processo producono una ridefinizione e una riorganizzazione del fenomeno stesso, e che ‘gli assi del processo e del sistema definiscono e organizzano le risorse culturali e sociali di una comunità, e anche le loro risorse comunicative’.

Quando decidiamo di sfruttare la struttura fornita da sintagma e dal paradigma per applicarla a fenomeni che apparentemente hanno poco o nulla a che fare con essi, siamo in buona compagnia. Da Lévi-Strauss a Floch, passando attraverso lo strutturalismo, è infatti un fiorire di esempi. Anche se oggi la filosofia strutturalista è in declino, possiamo certamente chiamarla a testimone per confermare ch’essa è stata la prima colpevole, o benemerita, di tale allargamento. E’ stata questa corrente filosofica che permesso di reperire il paradigma e il sintagma in vari fenomeni tra cui quello più vicino al nostro argomento resta l’identità visiva. L’ipotesi del presente lavoro riposa qui. Si tratta di allargare all’identità e alla immagine la strutturazione e l’organizzazione fornite dal sistema e dal processo, in modo da poter parlare di un vero e proprio processo di identità e di un sistema dell’immagine.

L’dentità si costituisce a partire da una catena sintagmatica di eventi che precedono e seguono l’evento presente. Ogni identità, di una marca, di una persona, di una società, è il frutto di questa catena che si combina potenzialmente all’infinito. Naturalmente resta da indagare di quali tipi di eventi stiamo trattando. In linguistica è certamente il materiale espressivo ( suoni o segni grafici) ciò che fornisce gli elementi della catena, che in quel caso risulta essere un enunciato. Ma nel caso dell’identità di quali elementi ed eventi stiamo parlando? L’identità si costituisce nella differenza (Lévi-Strauss, 1983) e di fatto una marca, ma anche una società o un individuo, si costituiscono e diventano osservabili e afferrabili solamente attraverso la loro identità (Semprini, 1993,72). Tale differenza costitutiva si attua attraverso un processo di combinazione che mette in fila una serie di eventi. Quella serie è diversa da tutte le altre che costruiscono, di fatto, altri individui e altre identità. Quella serie, alla fine, condurrà quella marca o quell’individuo ad essere diverso da tutti gli altri e ad avere una propria specifica identità.

C’è un antico proverbio africano che recita "Ci vuole un villaggio per crescere un bambino". La crescita del piccolo dell’uomo, quello che potremmo definire il suo processo di adultità, è il lato storico-biologico della sua identità. Essa comporta, secondo questo proverbio, il coinvolgimento dell’intero villaggio. La saggezza del proverbio è così profonda da essere dirompente. Non basta una famiglia e non sono sufficienti i genitori, checché ne dica la morale cristiana che fonda sulla famiglia e solo sulla famiglia i valori buoni e fondativi per la crescita di un figlio, ad aiutare un bimbo a trovare la sua identità. Il lettore a questo punto potrà trovarsi vagamente a disagio accorgendosi che stiamo usando in maniera quasi sinonimica tre concetti diversi, crescita, educazione e identità. Non è un caso. La crescita di un bambino è un processo biologico che mescola fattori culturali e sociali. Questo processo ha bisogno di una continua istanza di educazione che, come afferma la saggezza africana, non è solo educazione parentale ma è una complessa educazione sociale. Il risultato di questo processo interrelato di crescita ed educazione da vita a un altro processo, quello di identità. A questo punto non è errato ritenere che i tre processi siano aspetti diversi di uno solo.

La delicata arte del crescere, portatrice di identità, costituisce un percorso i cui elementi che si combinano sono molteplici. Tra questi elementi vi sono certamente le cure e le attenzioni dei genitori, ma anche lo sguardo attento del maestro o della maestra, la mano di chi aiuta ad attraversare la strada, il giocattolo che qualcuno strappa di mano, la carezza di una compagna di scuola, il pianto di un amico sulla spalla, un ritorno, un abbandono, l’ascolto di un pianto desolato, il bullismo del compagno più grosso, la voce tonante di un adulto, i libri consigliati e letti (ma anche quelli non letti), il tremore di un amore. Un intero villaggio, composto di persone e di autorità, di altri bambini e di varie istituzioni, concorre alla crescita e alla formazione di una identità. Tutti gli eventi educativi del ‘villaggio’ si combinano per dare vita e consistenza a un processo suscettibile di aggiungere, in modo potenzialmente illimitato, nuovi elementi. L’identità è sempre in fieri. Quello che il proverbio africano non esplicita, ma suggerisce, è che il villaggio non smette mai di essere presente e di accrescere l’identità del bimbo-uomo fino a che questo non giunga alla fine della sua vita.

La prospettiva sociosemiotica che sta alla base di queste riflessioni impone di ripensare gli eventi che si combinano per costruire una identità non tanto come fatti, azioni, cortesie o scortesie , attenzioni o disattenzioni presentì nella realtà "là fuori". Insomma non tanto facendo riferimento ad atteggiamenti o comportamenti nudi e crudi, piuttosto facendo riferimento a testi che danno luogo a discorsi.

Il discorso, in semiotica, è relativamente indifferente rispetto al suo piano dell’espressione. Quando si parla di un testo, invece, si intende una produzione formata da un piano del contenuto e da un piano dell’espressione. Per esempio, il testo di scuse del presidente della Coca Cola, di cui si parlerà più avanti, fu realizzato sotto forma di spot pubblicitario. Esso possedeva un piano del contenuto, le scuse appunto, e un piano dell’espressione, le immagini e il sonoro utilizzate come mezzo di trasporto del contenuto, ciò che appunto si definisce come modalità espressiva in grado, tra l’altro, di relazionarsi e influire con quel contenuto. Diversamente dal testo il discorso, si diceva, è relativamente indifferente rispetto al piano dell’espressione (Marrone, p.xxxiv, 2001). E, infatti, il discorso pubblicitario della Coca Cola è costituito dall’insieme generale dei testi pubblicitari Coca Cola, che come si sa, sono stati realizzati nel corso degli anni attraverso e grazie a media diversi: televisione, quotidiani, riviste, affissioni, pubblicità dinamica, ecc… Nonostante i testi siano differenti per quel che riguarda il piano dell’espressione, e comunque non identici per quanto riguarda il contenuto, è possibile riscontrare temi e configurazioni nonché modalità di usare il tempo lo spazio e gli attori, simili. Sono queste configurazioni e modalità simili che definiscono il discorso pubblicitario Coca Cola come distinguibile da tutti gli altri discorsi pubblicitari e, a fortiori, dagli altri discorsi socialmente rilevanti come a esempio il discorso politico, il discorso informativo, il discorso scientifico, il discorso giuridico.

Gli atteggiamenti e i comportamenti educativi del villaggio sono da intendersi come testi in quanto sono procedure di significazione. Mettendo essi in presupposizione reciproca un piano dl contenuto con un piano dell’espressione assumono un senso per chi li interpreta. La semiotica è infatti convinta che non comprendiamo fatti ed eventi bruti, freddi, solamente reali, ma in realtà i testi che quei fatti e quegli eventi sono per chi li interpreta. Piano piano i testi costruiscono il discorso della identità indifferente al piano dell’espressione, come si diceva. Il discorso educativo che, secondo il bel proverbio africano, coinvolge un intero villaggio, è costituito da testi anche molto differenti tra loro come appunto parole, gesti, comportamenti, testi effettivamente scritti, emozioni, ecc… Ma tale differenza riguarda solamente il piano dell’espressione e ciò non impedisce che questi diversi materiali semiotici possano concorre tutti assieme a costruire un discorso unitario, quello della identità di una persona.

Se l’identità è un processo di cui abbiamo cercato di delineare gli aspetti salienti, l’immagine è un sistema che si incrocia con quel processo. Entrambi non possono sussistere da soli e, anche se il loro funzionamento non è simmetrico, è comunque vero che l’uno non sta in piedi senza l’altro. L’immagine, innanzi tutto, non si costruisce per combinazione ma per selezione. E non forma nessuna catena sintagmatica lineare, ma semmai un sistema paradigmatico. Perché l’immagine è un paradigma? E in che senso essa crea un sistema? Tutto accade come se l’identità portasse dentro iscritta la sua storia, tramite la combinazione delle sue pratiche, mentre l’immagine fosse il risultato relazionale di un insieme di opzioni. Le opzioni sono di tipo semantico-valoriale. Se decido che i valori di Coca Cola sono la dinamicità e la giovinezza non posso poi agire seguendo altri valori come la lentezza e la prudenza. Gli uni escludono gli altri e la loro eventuale compresenza non può portare che a una crisi di identità, ciò a ribadire il legame esistente tra il sintagma dell’identità e il paradigma dell’immagine. Per inciso, è proprio quello che è accaduto durante la crisi che Coca Cola ha sofferto in Belgio nel 1999.

 

 

1.3.1 La crisi di immagine Coca Cola

 

Il presidente Douglas Ivester ha dovuto affrontare nel 1999 una crisi di immagine scoppiata in Belgio e che poi si è allargata alla Francia, al Lussemburgo e all’Olanda. La bevanda è stata sequestrata e 2,5 milioni di lattine e bottiglie prodotte negli stabilimenti europei di Anversa e Dunquerque sono stati buttati al macero 8.

Tutto era nato dal malessere denunciato da aluni consumatori di lattine. I primi furono i ragazzi di una scuola in Belgio che accusarono forti dolori causati, si scopri poi, da un funghicida che veniva usato durante il trasporto del prodotto. Inoltre fu trovata anidride carbonica avariata in alcune bottigliette.

James Burke, ex amministratore delegato della Johnson and Johnson, nel 1982 si era trovato in un guaio anche peggiore di quello sofferto da Coca Cola. Sette persone erano morte dopo avere preso pillole dell'analgesico Tylenol trattate al cianuro da un gruppo di ricattatori. Sulla reazione di Burke sono basati oggi molti libri sul management aziendale in momenti di crisi. Quello che accadde fu che la Johnson and Johnson ritirò il prodotto prima dell'intervento del governo americano. L'amministratore delegato si dichiarò immediatamente responsabile della situazione, l'azienda si scusò anche se in realtà non aveva colpe, e uscì dalla vicenda trionfalmente. Mentre Burke gli ricordava la storia, Douglas Ivester capì che lui, fino a quel momento, si era comportato esattamente all’opposto. Non aveva colto l’entità della crisi, anzi, non aveva neppure compreso che si trattasse di una crisi. "Invece di richiamare subito lattine e bottiglie, aveva aspettato che i prodotti della Coca-Cola venissero messi al bando dai governi di mezza Europa; invece di dare subito ragione al cliente aveva taciuto per giorni, mentre per ricevere le famose scuse belgi e francesi hanno dovuto aspettare due settimane. Nel frattempo la Coca-Cola era precipitata nella più grave crisi di immagine della sua storia lunga 113 anni." 9

Il presidente aveva anche dato spazio a uno studio fatto fare in fretta e in furia nel quale si diceva che i malesseri accusati dai consumatori potevano essere il frutto di una isteria collettiva. E ciò poteva anche essere vero, a tutt’oggi non pare che il funghicida usato per il trasporto e le cui tracce restavano sulle lattine, e l’anidride carbonica avariata nelle bottigliette potessero essere causa dei malesseri, ma in ogni caso era una mossa sbagliata sul piano dell’immagine.

Alla fine, in uno spot di scusa che il presidente girò in inglese con sottotitoli in fiammingo e francese ammise le sue colpe e aggiunse:"Ci presentiamo come una azienda per i giovani e dinamica e ci siamo comportati esattamente all’opposto."

Ma vediamo i fatti così come vengono riportati dagli archivi dei giornali. La "Coca colic" (così alcuni giornalisti battezzarono l’epidemia), inizia ufficialmente l’8 giugno 1999, quando una trentina di bambini della scuola di Bornem, presso Anversa, vengono ricoverati in ospedale perché accusano nausea, mal di testa, dolori addominali, palpitazioni e malessere generale dopo aver bevuto Coca Cola in bottiglie da 20 centilitri. Le analisi iniziali sulle bevande contenute nel distributore automatico della scuola non evidenziano la presenza di contaminanti, ma la notizia viene subito ripresa dai giornali.

Nei giorni successivi, i casi si moltiplicano: "sono colpiti soprattutto gli studenti, e le ragazze sembrano più vulnerabili." I malati riferiscono di aver avvertito un odore e un gusto insoliti nella bibita. Dopo le rassicurazioni iniziali sulla qualità dei suoi prodotti, a fronte del numero dei casi, la Coca Cola ritira dal mercato le bibite dei lotti incriminati e, il 15 giugno, rilascia un comunicato stampa. Stando alle indagini condotte da suoi periti, l’origine dei malesseri risiede nella contaminazione delle bottiglie da 20 centilitri di solfuro di carbonile, causata dalla cattiva qualità dell’anidride carbonica impiegata in un’industria di imbottigliamento di Anversa. Inoltre, alcune lattine sono state contaminate all’esterno da cloro-metilfenolo, usato come fungicida durante i trasporti. Per questa sostanza viene additata un’industria francese, che esporta prodotti in Belgio, Olanda e Lussemburgo. Nei quattro paesi interessati, le autorità decidono di bandire i prodotti Coca Cola.

"Il 16 giugno l’epidemia varca il confine: vicino a Calais, nel Nord della Francia, un’ottantina di persone accusano malori dopo aver bevuto Coca Cola in lattina. Le autorità sanitarie dei due paesi iniziano subito a collaborare, ma la loro azione è tanto tempestiva quanto confusa. Le informazioni fornite ai consumatori sono contraddittorie, e l’apparente risultato di queste è che il numero di casi cresce esponenzialmente nei giorni successivi. I piani di intervento prevedono, a fasi alterne: il ritiro dal commercio dei lotti incriminati, quello, presto revocato, di tutte le bevande prodotte dalla Coca Cola Company (fra cui Fanta e Sprite), il divieto di commercializzazione e di cessione gratuita delle bibite, la semplice raccomandazione a non venderle, la chiusura degli impianti di produzione."10

Nel frattempo le indagini tossicologiche mostrano che le sostanze incriminate non sono presenti in quantità sufficienti per provocare i malesseri (per il solfuro di carbonile si trova una concentrazione di 5-15 parti per miliardo e per il cloro-metilfenolo sull’esterno delle confezioni si trovano in media 0,4 microgrammi per lattina). I due composti possono però essere la causa del cattivo odore e del gusto insolito della bibita. Benoit Nemery, tossicologo dell’Università di Lovanio, avanza l’ipotesi che l’epidemia possa essere dovuta a una forma di isteria collettiva, "che ha trovato terreno fertile in una popolazione già scioccata da altri recenti scandali sulla sicurezza degli alimenti."11

Nonostante possa rimanere il ragionevole dubbio che le sostanze tossiche non fossero presenti in maniera sufficiente da scatenare i malesseri, è stata comunque errata l’azione del presidente della Coca Cola, che invece di scusarsi mostrava il comportamento di chi accampava scuse e ributtava sul consumatore le colpe. Non è tanto una questione di verità o menzogna, era piuttosto il sistema di immagine della Coca Cola che non permetteva a Ivester di comportarsi in quel modo. Ma il presidente questo non lo comprese.

Le opzioni di tipo semantico-valoriale che avevano costruito il sistema dell’immagine Coca Cola non permettevano quel tipo di comportamento pena una crisi non solo di immagine, ma anche di identità. Coca Cola, infatti, stava inserendo una opzione errata nel suo sistema di immagine, una opzione che andava contro tutte le altre. Tale scelta a lungo andare avrebbe prodotto una perdita semantica, proprio come quando scelgo un verbo errato all’interno di una frase.

La frase subisce una perdita semantica e necessita di successiva risemantizzazione perché in qualche modo venga accettata come dotata di senso.

Un cambiamento nel paradigma ha trasformato il sintagma, un cambiamento nel sistema ha mutato il processo. E ciò avviene perché identità e immagine costituiscono una sorta di unità Diderot semantico-valoriale.

E’ noto in sociologia dei consumi il concetto di unità Diderot che ricava il suo nome dal filosofo francese Denis Diderot, il quale narrò di aver ricevuto in dono una costosa e lussuosa vestaglia di seta. Quella vestaglia, una volta indossata, faceva indubbiamente una ottima figura che però a quel punto strideva con il resto dell’appartamento di Diderot. La raffinata eleganza di quell’oggetto non si combinava, insomma, con gli altri oggetti che arredavano il suo studio. Così Diderot si trovò costretto a cambiare quegli oggetti per tornare a dare coerenza al sistema oggettuale che lo circondava. "Diderot, cioè, fu costretto a modificare gli elementi componenti il suo sistema di riferimento, lo studio, proprio perché tra questi elementi non coglieva più una coerenza semantica e culturale" (Codeluppi, 2002, p.122)

C’è una sorta di sistema Diderot anche tra immagine e identità, tale che un cambiamento nel processo di identità produce mutamento nel sistema dell’immagine e viceversa. Coca Cola ha inizialmente reagito alla crisi mutando il suo sistema di immagine e introducendo un elemento che strideva con gli altri elementi di quel sistema. La presenza di quell’elemento sull’asse delle /o/ ha prodotto un mutamento immediato anche sull’asse delle /e/, i problemi di immagine diventano immediatamente problemi di identità, e viceversa.

Secondo questa impostazione risulta quindi errato pensare che l’identità precede l’immagine, o che l’identità appartiene all’emittente mentre l’immagine appartiene al ricevente, e ne è una sua ricostruzione. Quello che sembra accadere è in realtà un funzionamento dell’identità che non può prescindere dall’immagine, e viceversa. Nessuno dei due concetti appartiene a un elemento o all’altro della comunicazione, ma entrambi concorrono a definire la storia di una marca, di una società, di un individuo.

 

1.4 Funzione guida del valore

 

A questo punto può semmai sorgere una nuova questione. Se non esiste un soggetto definito che crea identità, che ne ricostruisce l’immagine, allora chi è il responsabile delle combinazioni di identità e delle scelte di immagine?

La risposta è: il valore. Il valore è il responsabile della messa in contatto del mondo della marca con il mondo del consumatore, come già afferma Semprini

Applicata alla problematica della marca, la nozione di valore presenta due elementi di particolare rilievo: da un lato, essa costituisce il terreno comune tramite il quale la marca può mettere in contatto l’universo della produzione e delle merci con quello del consumo e degli individui; dall’altro, essa mostra che tale contatto non può stabilirsi che attraverso la prospettiva del senso (Semprini, tr. it: 1996: 85-86).

 

 

Semprini aggiunge che il valore, analizzato nel contesto del funzionamento della marca, è ciò che mette in relazione il mondo della produzione con il mondo dei consumi. La produzione di valori per una marca è importantissima perché, secondo Semprini, diventa il terreno comune, il ponte che collega con il consumatore. Il quale si avvicina alla marca proprio attraversando quel ponte. Il valore è un costruttore di senso. Vi sono numerose accezioni di valore, in economia, in antropologia, in semiotica. Ma nella nostra prospettiva il valore è soprattutto la linea guida che produce quelle combinazioni di immagine e quelle scelte di identità. I valori inseriscono in una prospettiva del senso determinati fatti ed eventi educativi, e ne relegano altri nel dimenticatoio. Come mai uno sguardo si è stampato così indelebilmente nei nostri ricordi d’infanzia? O una sgridata, o una mano amica che ci ha aiutato a sollevarci da terra? Talvolta un fatto apparentemente insignificante ci segna e forma. Costruisce un elemento combinatorio della nostra identità. La psicanalisi propone differenti modalità di spiegazione per spiegare i ricordi indelebili così come quelli rimossi. E ritiene che i secondi siano molto più importanti dei primi. Al momento la spiegazione psicanalitica, che non neghiamo, si può tenere di sottofondo. Preferiamo invece parlare di un sistema valoriale che, sia pur ancor giovane e in fieri, è il responsabile della scelta e della combinazione degli elementi che vanno poi a porsi sul sintagma dell’identità e sul paradigma dell’immagine. Ogni elemento può essere scelto, o combinato, perché precedentemente investito di un valore che lo ha, si scusi il bisticcio, valorizzato e lasciato emergere dall’indistinto fluire degli eventi quotidiani fornendogli una nuova prospettiva di senso. Quella mano, quel pianto, quel sorriso, quello sguardo, quello scambio di battute sono diventati gonfi di significato perché ‘toccati’ dal sistema valoriale. I valori, anche per la semiotica, sono al fondo, alla base del senso. Per una marca avviene lo stesso. Il primo passo, esplicito o non esplicito che essa compie è la costruzione di, o l’inserimento in, un sistema valoriale. Tale sistema, che per esempio per Coca Cola si compone dei valori di giovinezza e dinamicità, può portare a combinazioni di eventi, che storicizzzano tali valori e producono identità. Contemporaneamente porta ad effettuare scelte di eventi, che poi si strutturano paradigmaticamente in immagini.

Note

1_ Freud, 1978, p. 483.

2_ Ferraresi, 2002, pp.100 e segg.

3_ Cfr. Simone , 1994, p.84.

4_ Cfr. anche Simone, op.cit. p.85

5_ Cfr. Volli, op;cit. p.68

6_ Volli, in realtà, parla anche di sostituzioni paradigmatiche che funzionano perché funzionalmente simili o contigue, op.cit. p. 67

7_ Jakobson, 1966, Lévi-Strauss, Winfried Noth (1988) code pag.135 e Jean-Marie Floch (1997)

8_ Le notizie su caso Coca Cola sono state riprese dagli archivi di Panorama on line www.22mondadori.com

9_ Ibidem

10_ Ibidem

11_ Il sito da cui abbiamo tratto questi ultimi resoconti è www.zadig.it